Ho trovato su Internet un vecchio filmato: The final Goodbye della Roosterman Production, con Hurt di Johnny Cash come colonna sonora. Meraviglioso. Un emozionante omaggio a Smokin’ Joe Frazier, immagini commoventi. Il volto del vecchio campione è sofferente, ma un sorriso appare a rasserenarlo ogni volta che sullo schermo della tv scorrono i flash del suo primo match contro Muhammad Ali. Ho rimesso assieme i miei ricordi. La magica notte del Madison Square Garden e l’inferno di Manila. Sono legato al passato, è l’età che mi invita a farlo. Ma non credo che sia solo nostalgia, forse è semplice amore per le cose belle.
È il 7 marzo del ’71. La notte prima del match.
Il telefono squilla nella camera d’albergo di Joe Frazier. Il campione ha dovuto registrarsi sotto falso nome. Ha ricevuto minacce di morte nel caso in cui dovesse battere Ali. La polizia sorveglia la casa di Filadelfia dove Florence e Marvis, moglie e figlio, aspettano l’incontro.
«Joe, sei pronto?»
«Sono pronto, fratello»
«Anch’io e tu non potrai battermi, perché sono il più grande»
«Tu dici che sei uno degli uomini del Signore, vedremo in che angolo sarà il Signore»
«Sei sicuro di non avere paura?»
«Ho paura solo di quello che sto per farti»
«Getterò acqua sul tuo fumo. Ti distruggerò. Ci vediamo domani»
«Ci sarò, non tardare».
Il corpo di Frazier, mentre spara il pugno della vita, è proteso in avanti, in una posizione che non dovrebbe essere l’ideale per liberare il massimo della potenza. Sembra che Smokin’ Joe lavori solo di spalla, senza l’aiuto delle gambe, ma quel gancio sinistro scatta come una molla.
Bum!
La mascella destra di Ali è centrata in pieno e lui va giù prima con la schiena, poi con tutto il corpo, mentre le gambe si sollevano per un attimo nell’aria.
È il quindicesimo round e Joe Frazier ha appena messo knockdown Muhammad Ali.
Avrebbe comunque vinto quella prima sfida, ma la felicità che quel gancio sinistro gli regala, non la dimenticherà più.
«Avevo 27 anni e sapevo che non ci sarebbe mai più stata un’altra notte come quella nella mia vita».
È l’1 ottobre del ’75.
The Thrilla in Manila.
Esausti i due protagonisti si preparano agli ultimi tre minuti di uno dei più drammatici match che la storia del pugilato ci abbia regalato.
«Angelo, cut off. Cut ’em off».
Ali non grida, non ne ha la forza. Sussurra una richiesta di aiuto che viene dal profondo dell’anima.
«Angelo tagliami i guantoni. Tagliali via».
Vuole finirla lì.
Ha le braccia appoggiate sulle corde, gli occhi rivolti verso il basso, guarda il tappeto dove quella notte ha ballato solo per pochi istanti. Ha dominato gli ultimi round, ma sa di avere esaurito ogni energia.
«Non torno al centro del ring. Quell’uomo è pazzo».
Il vecchio manager non accetta la situazione. Vuole calarsi sino in fondo al dramma. Solo così saprà trovare una soluzione per uscirne vincitori, ancora una volta.
Dall’altra parte del ring, Joe sputa il paradenti. E con il paradenti sputa un fiotto di sangue.
Ha l’occhio sinistro pesto e chiuso. Sono due round che da quella parte vede davvero poco.
Eddie Futch gli dà i sali, poi fa la più dolorosa delle scelte.
«Joe, cosa c’è che non va con la sua mano destra?».
«Non posso vederla».
«Sto per fermare il match, stai prendendo una punizione troppo pesante».
«No, no. Eddie non puoi farmi questo».
«Non potevi vedere niente negli ultimi due round. Perché pensi che possa cambiare tutto nella quindicesima ripresa?».
«Voglio lui, capo».
«Siediti figliolo. È finita. Nessuno dimenticherà mai quello che hai fatto qui stasera».
Futch chiama Padilla, con i gesti e con le parole gli fa segno che il suo pugile si ferma lì.
Ali fatica ad alzarsi, lo tengono su il dottor Ferdie Pacheco e Bundini Brown, mentre Angelo Dundee si volta lentamente verso il centro del ring.
Un mezzo giro della testa gli basta per capire che il suo uomo rimarrà sul tetto del mondo.