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Sul ring ti senti un eroe, poi scendi e scopri di essere dannatamente solo

Bobby è morto!

John è appena entrato nel vecchio e malandato bar di Las Vegas dove ogni sera incontra amici che conosce da sempre. Nessuno risponde a quelle tre parole dette con voce piena di odio. Gli altri lo fissano per una manciata di secondi, poi scuotono la testa.

“BOBBY È MORTO!”

John urla, ha il cuore straziato. Non è una lacrimosa veglia funebre che vuole. Sta cercando qualcuno con cui litigare, gli piacerebbe prendersi a pugni con uno più giovane e bravo di lui. Uno capace di dargli una lezione, un colpo dietro l’altro fino a quando non si ritrovasse per terra, malconcio e dolorante. Sente un bisogno irrefrenabile di farsi del male. Vuole soffrire fino in fondo. Sente un vuoto terribile e per farlo andare via l’unico modo, pensa, è quello di farsi pestare.

“BOBBY È MORTO!”

Lo so”.
Sembra che Arthur faccia una fatica terribile a mettere assieme queste due parole. Stira ogni ruga di una faccia disegnata da un maestro dell’orrore, poi cede alla tristezza, manda giù l’ennesimo scotch e tace. Quel silenzio dura meno di dieci interminabili secondi, poi Arthur guarda una ad una le facce tristi degli amici e si lascia andare. Prova a tirare giù ricordi pieni di malinconia.

L’ho visto meno di un mese fa a Hemet, nella casa di cura dove era ricoverato da tempo. Parlava lentamente, strascicava le parole, la voce era flebile e sembrava uscisse da una bocca che non era la sua. Proprio come era accaduto una decina di anni fa quando lo avevano inserito nella Hall of Fame. Lucidità, buio totale, di nuovo lucidità. Nei periodi buoni ricordava date e nomi, ma la maggior parte del tempo viveva in un mondo in cui non lasciava entrare nessuno. Solo, come lo è sempre stato”.

Un rumore violento e improvviso fa saltare i vecchi ragazzi sulle sedie, cadono i bicchieri, whiskey e brandy bagnano il pavimento del bar lasciando nell’aria un forte odore di alcool. Peter ha tirato un pugno violento sul tavolino tondo di legno, una botta terribile. Ora ha l’attenzione di tutti. Si tocca la mano con cui ha scagliato il colpo, gli fa male. Qualche escoriazione, un po’ di sangue. Ma a spaventare gli amici sono i suoi occhi. Esprimono rabbia, violenza, ferocia, risentimento.

Basta! Non dite una parola di più. Bobby non merita di essere ricordato con frasi pietose. Avete già dimenticato quello che ci ha regalato? Ci ha fatto sognare, ci ha portato in un mondo che senza di lui non avremmo mai conosciuto. Eravamo tutti in piedi e applaudivamo senza sosta, sembravamo impazziti. Ci scordavamo in che luogo fossimo, non sapevamo neppure più quale fosse il nostro nome. Rafael Limon, Alexis Arguello, Danny Lopez, Cornelius Boza Edwards, Ray Mancini, Ruben Olivares. Gente che sul ring portava soprannomi come Bazooka, Boom Boom, Little Red. Campioni, fuoriclasse. Li ha affrontati tutti. Che battaglie! Una sfida testa a testa fino a quando uno dei due non cedeva. Colpi, ferite, tagli, sangue, sudore e lacrime. E noi lì senza farci neppure una domanda, eccitati da quello che stavamo vedendo. No, Bobby non deve essere salutato con il pianto, la commiserazione. Merita un ultimo lungo applauso. E se non siamo capaci di celebrarlo, allora taciamo”.

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Jeff, portane ancora“.
Non chiedono un altro bicchiere di alcool, qui viaggiano a bottiglie intere. Stasera c’è da celebrare un eroe, il loro eroe. Nessuno vuole rimanere indietro nell’esternazione dei ricordi.

Lo scotch va giù, scioglie la lingua e ingigantisce la malinconia.

Le facce del gruppo sono segnate dalle insidie del tempo, dalla cattiveria della vita e da un lavoro che non concede spazio a chi non ha lo spirito del guerriero. Nasi schiacciati, vecchi tagli mal suturati, sguardo da duri. Ma ancora una volta sono gli occhi a regalare la sensazione più forte. Trasmettono una scarica elettrica da cui ti senti istintivamente portato a difenderti. Quando ti fissano, fanno paura.

C’è tanta rabbia nel vecchio bar di Las Vegas in questa calda sera di inizio settembre del 2016. Attorno al gruppo di amici si è radunata una piccola folla. Nessuno ha il coraggio di intervenire. Tutti ascoltano in silenzio, i signori si stanno accaldando, a quel Bobby volevano davvero bene.

Il bancone in legno antico dietro cui il vecchio barman guarda e sorride pieno di tristezza, ha visto giorni migliori. Le cannelle che mandano giù birra hanno macchie che sono andate a rovinare l’ottone che una volta brillava. Il nostro barman non ha più di quarant’anni. Guarda il gruppetto di anziani e scuote la testa. Ha paura che prima o poi per calmarli dovrà chiamare la sicurezza. Continuano ad alzare il tono della voce, senza però mai sconfinare nell’ira. Vogliono solo urlare la rabbia per Bobby, per l’amico che non c’è più.

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Vi ricordate quella notte? Certo, come potremmo dimenticarla?” Arthur apre il libro della memoria “Eravamo a Sacramento.”

E non era certo Salvadore Ugalde a metterci in agitazione. Quel messicano non avrebbe mai potuto battere Bobby”. Pronuncia ogni parola scandendola con cura, come se stesse parlando a qualcuno che non conosce la sua lingua. Ma poi, all’improvviso si accorge di quelle facce che lo guardano senza grande trasporto, e mentre pronuncia il nome dell’amico la sua faccia diventa di un rosso rubizzo e lui per tirarsi fuori d’impaccio manda giù un altro whiskey.

No!” un monosillabo, basta per far tacere gli altri quattro, per catturare l’attenzione. John finora non ha aperto bocca. Si asciuga una lacrima, strizza gli occhi umidi e fissa quelli degli altri come se volesse dividere con loro ogni singolo singhiozzo.

Quella sera eravamo tutti lì a chiederci come potesse fare una cosa del genere. Salire sul ring poco più di ventiquattro ore dopo la morte della moglie. Valerie aveva appena 31 anni. Si era uccisa nella grande camera da letto, al primo piano della loro casa. Aveva alzato al massimo il volume dello stereo e si era sparata un colpo di pistola alla tempia. Stecchita, morta sul colpo. Ci aveva già provato il mese prima con una dose di pasticche che avrebbero ammazzato chiunque, ma Bobby era arrivato in tempo, era riuscito a salvarla. La seconda volta lei non aveva voluto correre rischi. Aveva aspettato di essere sola e l’aveva fatta finita.

Si era stancata” Arthur entra con un filo di voce, ha quasi paura di interrompere il discorso di John. Ma lui Valerie la conosceva bene. Come conosceva da sempre Bobby. Erano cresciuti a Sylmar nella San Ferdinando Valley, nella grande Los Angeles. I tre ragazzi avevano quasi la stessa età.

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Bobby aveva il volto da eterno bambino, vestiva in modo sobrio, indossava uno sguardo da attore. Uno di quelli che a Hollywood andavano forte sul grande schermo e facevano innamorare milioni di ragazzine. Sembrava uno scolaretto. Proprio per questo il vecchio giornalista Bill Caplan l’aveva soprannominato Schoolboy.

A quello scolaretto la boxe era entrata nel sangue. Sembrava non potesse più staccarsene. E a Valerie non andava bene. Avevano tre figli e lui passava poco tempo con loro. Era diventato campione Wbc dei piuma appena due anni dopo l’esordio nel professionismo. Messo via Alfredo Marcano in nove round, non si era fermato più.

Lei lo supplicava di smettere, ma il pugilato sembrava fosse una droga per Bobby. Non poteva farne a meno. E poi gli servivano i soldi. Ne aveva guadagnati tanti, ma tanti ne aveva anche spesi. Lei lo aveva implorato, minacciato, ricattato. Niente. Lui le prometteva che il prossimo match sarebbe stato l’ultimo. Ma poi ce ne era un altro e un altro ancora. L’ultimo era sempre il prossimo e la catena non si chiudeva mai. Neppure un colpo di pistola e la morte della moglie erano riusciti a fermarlo”.

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I ricordi attenuano il dolore, l’alcool aiuta la memoria e scioglie la parola. Luis finora ha solo ascoltato, adesso tocca a lui, non vuole sentirsi escluso. Qualcuno potrebbe pensare che lui all’amico non volesse poi così bene.

Me la ricordo quella sera. Messo ko Ugalde, Bobby è corso all’angolo. Ha abbracciato il fratello Allen ed è scoppiato in un pianto ridotto. L’ho sentito, ho sentito che gridava. “È finita! O Dio, è finita!” Ero nelle prime file di bordo ring e quelle parole sono entrate nella mia testa. Mi sembrava il verso di un animale ferito. Non era un urlo di liberazione, erano grida di rabbia verso se stesso. Voleva convincersi che tutto fosse finito davvero. Sapeva benissimo che quell’incubo lo avrebbe perseguitato per sempre”.

Bobby è morto.

E i suoi amici lo ricordano con grande affetto e qualche rimpianto.

Che pugile fantastico! Un guerriero senza paura!” Arthur è stato il suo più grande tifoso. “Ha ingaggiato battaglie selvagge con Lopez, Olivares, Limon, Boza Edwards. Ha vinto e perso, ma non ha mai fatto un passo indietro”.

E cosa ha avuto in cambio? La dementia e la povertà!” John lo dice quasi sottovoce, come se parlasse a se stesso, come se non volesse turbare quell’atmosfera da elogio funebre. Ma pesa ogni parola. Racconta il dramma di un uomo per cui il ring avrebbe dovuto essere l’unica casa. Quando scendeva quei gradini, la vita per lui diventava terribilmente difficile.

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Vederlo negli ultimi tempo è stato davvero triste. Faticava a ricordare, faticava addirittura a mangiare, non riusciva neppure a vestirsi da solo. Forse questo è colpa della boxe, o di come lui abbia voluto interpretarla. Ma la povertà no, non credo sia un’altra colpa da scaricare sul pugilato”.

Ora sembra che un buio fitto e spaventoso si sia impadronito dell’intero salone, qualcuno ha strane visioni, gli sembra che un occhio di bue illumini il tavolino dove cinque vecchi amici stanno ricordando uno di loro che non c’è più. Ma è solo la suggestione che tutte quelle parole hanno generato. Si sta scivolando inevitabilmente verso un approdo di malinconia totale.

La vita di un campione che ha elettrizzato spettatori e tecnici sfila lentamente, sostenuta dalle parole di lo aveva scelto come eroe. Ne aveva tanti di tifosi così Bobby.

Era uno che accorciava la distanza e cominciava a picchiare. Le mani affondavano nel corpo del rivale. Non si fermava. O andava giù lui o crollava l’altro. E questo alla gente piaceva da morire. Due titoli mondiali, nei piuma e nei superpiuma. Cinquantotto vittorie su sessantasei incontri. Un idolo.

Un uomo dannatamente solo.

È salito sul ring per l’ultima volta il 2 giugno del 1988, una vittoria in dieci round su Bobby Jones a Orlando, in Florida. Ma neppure il ritiro dalla boxe lo ha portato via dalle tragedie che ne hanno accompagnato la vita.

Sembrava che una maledizione lo inseguisse dovunque andasse. Evidentemente non riusciva a scaricare il peso dei troppi peccati” la voce di Arthur, rauca e affannata, esce a fatica da quella bocca piccola, labbra sottili e denti che il tanto tabacco ha ormai colorato di un avana amaro.

Tre anni dopo l’uscita di scena, è morto suo figlio. Bobby jr è stato ucciso in una sparatoria tra gang in un garage di Panorama City. A Bobby restava l’affetto di tre figli, della mamma e del patrigno. Ma aveva già cominciato la discesa verso l’inferno”.

Aveva provato a lavorare, a scappare dai demoni che ne riempivano le giornate. La droga aveva fatto il suo ingresso, lenta e implacabile si era introdotta in un’esistenza che sembrava avesse già pagato il suo conto al dolore.

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Mercoledì 7 settembre 2016 Bobby è caduto a terra e ha sbattuto la testa sul pavimento. Era al centro di assistenza a Hemet, Los Angeles. È morto per le ferite riportate, aveva 64 anni. La sorellastra Dolores Banegas non ha voluto donare il cervello del fratello alla scienza che studia traumi e conseguenze della dementia.

Bobby ha finito di soffrire. A ricordarlo restano la sua anima da guerriero senza paura e le lacrime di chi lo ha amato.

Scotch per tutti.

Arthur, John, Peter e Luis cercano nuove parole per continuare a raccontare le gesta del loro eroe, pensano sia l’unico modo per ritardare il più a lungo possibile il distacco definitivo.

Carl tace. Come ha fatto finora. Ascolta e tace.

Lui a Bobby Chacon ha davvero voluto bene.

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