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“I pugni degli eroi", 46 storie

covereroiE' appena uscito l'ultimo romanzo della boxe. Ci sono dentro Robinson, Ali, Tyson, Benvenuti, Loi, Mazzinghi, Carnera, Sanchez, Arguello, Stevenson, Duran e tanti altri...

Il pugile è ballerino e attore. Mette in gioco fisicità, individualità, totale coinvolgimento di mente e di corpo; esplora i limiti della resistenza, va a caccia di una soglia del sacrificio da allontanare sempre di più. Trasporta sul palcoscenico del ring il racconto drammatico di tutto quello che ha vissuto prima, di tutto quello che spera possa vivere dopo. Accade così che ogni combattimento diventi una storia da raccontare, perché sul quadrato i pugili non salgono solo con il proprio corpo, ma si fanno accompagnare dalle esperienze della loro esistenza, dalle proprie personalità, dalle paure e dai sogni.

Scrive Joyce Carol Oates.

Nessun altro soggetto è, per lo scrittore, così intensamente personale come la boxe. Scrivere di pugilato significa scrivere di se stessi; e scrivere di pugilato ci obbliga a indagare non solo la boxe, ma i confini stessi della civiltà, cos'è o cosa dovrebbe essere umano. Anche se un incontro di boxe è una storia senza parole, ciò non significa che non abbia un testo o un linguaggio, che, in qualche modo, sia rozza, primitiva, inarticolata. Significa soltanto che quel testo è improvvisato nell’azione; il linguaggio è un raffinato dialogo tra pugili (tanto neurologico che psicologico, un dialogo di riflessi istantanei) che si svolge in adesione concorde nell’arcano volere del pubblico.

I pugili sono eroi affascinanti.

La violenza. E’ la causa delle critiche più severe nei confronti del pugilato. Ma i più tenaci detrattori sono quelli che si fermano al primo livello di lettura, quelli che non vanno a scavare nell’anima dei pugili e del mondo.

Ci aiuta a capire, ancora una volta, Joyce Carol Oates.

Uomini e donne che non abbiano ragioni personali o di classe per provare rabbia, sono inclini a respingere questa emozione o, addirittura, a condannarla pienamente negli altri. ….Eppure questo mondo è concepito nella rabbia, nell’odio e nella fame, non meno di quanto sia concepito nell’amore: e questa è una delle cose di cui la boxe è fatta. Ed è una cosa semplice che rischia di essere trascurata. Quelli la cui aggressività è mascherata, obliqua, impotente, la condanneranno sempre negli altri. E’ probabile che considerino la boxe primitiva, come se vivere nella carne non fosse una proposta primitiva, fondamentalmente inadeguata a una civiltà retta dalla forza fisica e sempre subordinata a essa: missili, testate nucleari. Il terribile silenzio ricreato sul ring, è il silenzio della natura prima dell’uomo, prima del linguaggio, quando il solo l’essere fisico era Dio…

A volte la storia è lì, così forte da farti pensare che sarebbe facile raccontarla. Il compito di uno scrittore dovrebbe essere quello di cogliere il messaggio lanciato dalla realtà per trasformarlo in una storia da narrare in un libro. Il pugilato trasmette emozioni talmente forti che la cosa più difficile diventa quella di passarle al setaccio, di selezionare solo quelle più pure, meno contaminate. Bisogna avere la forza di governare i fatti, resistendo alla tentazione di scivolare nella retorica.La forza espressiva del pugilato non si ferma a fornire spunti per la narrazione delle intricate vicende dei singoli come rappresentazione della scena generale. Ha la capacità di andare oltre, di disegnare lo scenario di un’intera società.

E’ quello che fa un grande giornalista, premio Pulitzer nel 1994 e direttore del New Yorker, come David Remnick in “Il re del mondo”. E’ la storia della società americana, narrata seguendo il percorso di vita di Muhammad Ali. Lì dentro c’è tutto. L’economia degli Stati Uniti, i segreti dei Presidenti, il razzismo che offende le coscienze, il Vietnam, il Black Power, Malcom X ed i Mussulmani neri. Un percorso disegnato da un maestro che usa i pennelli dell’anima per dipingere le storture di una società.

Scrive Remnick.

Clay era il mio nome da schiavo” mi dice sottovoce mentre, con l’avanzare del pomeriggio, la stanchezza si faceva sempre più visibile sul suo viso. Sta per attaccare uno dei suoi più vecchi ritornelli. “Senti dire Kruscev e sai che è un russo. Ching ed è cinese. Goldberg, ebreo. Che cosa è Cassius Clay? E’ una cosa che salta agli occhi. George Washington non è il nome di un nero. E’ una cosa che balza agli occhi. L’Islam era forte e potente. Era una cosa che potevo toccare con mano. Da piccolo avevo imparato che Gesù Cristo era bianco, tutti quelli dell’Ultima Cena erano bianchi. Poi arrivano questi mussulmani e mettono in discussione le cose. E io credo di aver dato il mio contributo.

Il pugilato è argomento ideale per un testo teatrale. Pensate al mondiale tra George Foreman e Muhammad Ali, 30 ottobre 1974. Ali arriva a quel match dopo essere diventato campione del mondo, avere abbracciato l’islamismo e cambiato il suo nome, avere rifiutato di andare a combattere in Vietnam, perso il titolo. E’ alla fine di un percorso di vita che lo ha portato ad essere protagonista nello sport, ma soprattutto nella società americana, che il campione sale sul ring di Kinshasa.

Due protagonisti assoluti nel cuore dell’Africa nera. Sono entrambi afro-americani, ma agli occhi degli spettatori George Foreman è il bianco che ha tradito i fratelli. Ali è invece il compagno che ognuno di loro vuole accanto. Il tifo è solo per lui. Arrivano ad urlare la rabbia in un canto di distruzione. “Ali bumaye, Ali bumaye”. Ali uccidilo, Ali uccidilo.Foreman picchia per sei round, l’altro subisce, lascia sfogare la furia senza logica del campione, poi lo porta sull’orlo del burrone, lo fa dubitare di se stesso. E alla fine lo spinge giù.

Nella boxe niente è gratis, tranne il dolore”, commenterà Big George Foreman.

Quell’incontro offriva spunti ideali per un libro. E Norman Mailer, agitatore del mondo letterario americano, vincitore del Pulitzer nel 1969, autore de “Il nudo e il morto” e “Un sogno americano”, co-fondatore del Village Voice, non si era fatto sfuggire l’occasione. “The match” è il titolo dell’opera, 240 pagine per raccontare quella che sembra essere la geniale intuizione di un artista ed è invece più semplicemente la narrazione della realtà interpretata da uno scrittore.

Scrive Mailer.

La stagione delle piogge, con due settimane di ritardo, si era abbattuta sullo stadio. Le acque del Cosmo erano scese sul Congo. La stagione delle pioggie era arrivata e le stelle del paradiso africano erano venute giù.”

Non è la sceneggiatura di un’opera teatrale che pretende un epilogo simbolico, con l’acqua che arriva a sommergere ogni bruttura. E’ solo la rappresentazione artistica della realtà.

I pugni degli eroi diventano protagonisti di mille storie che si rincorrono nel grande libro della boxe. Ogni nazione ha un eroe da celebrare. Lo ha adorato nel suo cammino sui ring di tutto il mondo, ne ha fatto un simbolo ignorandone i difetti ed esaltandone i pregi. Lo ha seguito con amore incondizionato in ogni impresa. E ne ha conservato il ricordo nel profondo del cuore.

Franco Esposito e Dario Torromeo nel loro ultimo libro hanno messo assieme questi attori. Quarantasei storie per il grande romanzo della boxe. Dempsey, Robinson, Ali, Tyson, Benvenuti, Loi, Mazzinghi, Carnera, Chavez, Sanchez, Arguello, Stevenson, Duran e altri ancora sino a completare l’alfabeto della gloria.

Questo libro è un racconto di sangue, sudore e lacrime. Ci sono dentro passioni travolgenti, amori e tradimenti. E’ la storia del pugilato, la storia della vita.

FRANCO ESPOSITO/DARIO TORROMEO “I pugni degli eroi”, 436 pagine, 16 euro. Absolutely Free editore.

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