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Cinema: Mia madre

Nel mondo disperato di Nanni Moretti, le Messe sono finite da tempo, i Pontefici vogliono fare gli attori,

non guidare le anime, le “palombelle rosse”, da premier, non dicono “cose di sinistra”, i “sogni d’oro”diventano incubi. Nel suo ultimo film, poi, “Mia madre”, non si canta più: mancano infatti i momenti in cui, al volante dell’auto, il protagonista, Moretti “padre” (La stanza del figlio) o “regista” (Il caimano), allenta la tensione con chi è seduto dietro intonando a squarciagola Insieme a te non ci sto più di Caterina Caselli e Lei di Adamo finché o la voce dell’altro lo segue, oppure tace e sorride. In Mia madre, Barry (John Turturro), l’attore americano che deve interpretare il film diretto da Margherita, si presenta allo spettatore abbandonato nel sedile posteriore della macchina della regista, sdraiato in posizione fetale, in preda agli incubi del jet lag: “non sa neppure chi sono io” dice lei all’assistente, e lo lascia delirare fino all’arrivo in albergo. Chissà se nei prossimi film di Moretti vedremo ancora le scene di quelle canzoni in auto, o anche solo della complicità che si crea nell’abitacolo, dopo che ora le ha pure destrutturate, svelando le macchine da presa sul cofano e il disagio dell’attore sia nella simulazione sia nella guida effettiva. E sarà ancora un cineasta, interpretato dallo stesso regista, o dalla sua alter ego Margherita Buy, il protagonista della sua prossima opera, se nel tempo ne ha gradualmente svilito la figura, sempre più inadeguata a rappresentare la società, così come gli psicanalisti di La stanza del figlio e Habemus papam sono impotenti davanti al dolore? Il film sulla famiglia Freud girato da Michele Apicella in Sogni d’oro (1981) era infatti uno strumento narcisistico, un’arma contro la cultura accademica; in Aprile (1998) il musical con Silvio Orlando pasticcere-ballerino rappresentava il sogno, l’evasione da una primavera politica e una paternità problematiche, ma già ne “ Il Caimano” (2006) del film che avrebbe dovuto smascherare la figura del premier si parla, ma si riesce a girare solo l’ultima scena. In “Mia madre”, Margherita conclude, invece, il suo “Noi siamo qui”, ma fin dall’inizio lo spettatore avverte l’assenza, ciò che manca, che si dimentica, come se si preparasse la perdita della madre con progressivi distacchi, nel proprio lavoro e nella vita privata.

Separata dal marito, Margherita arriva sul set dopo aver appena concluso una relazione, e dimostra subito il suo spaesamento:avverte la scena della carica della polizia come priva di forza d’urto, richiede più comparse, e quando le guarda in viso non vi ritrova “gli operai di una volta”, e l’assistente le spiega che non ci sono più, che “ora hanno le unghie laccate di verde”. Margherita lascia anche la propria casa (un vero allagamento? un sogno fin troppo esplicito nel simbolismo, come gli altri incubi del film? ) per trasferirsi, con la figlia, nell’appartamento materno, del quale intravvede il vuoto futuro, chiedendosi che cosa ne sarà dei classici latini in libreria: lei, che non sa spiegare l’utilità del latino. Lei, che si aggira nella città di notte (alla ricerca delle location per il film), come nelle stanze vuote: piazze deserte, capolinea di autobus, che le rendono insopportabile la solitudine, tanto da chiedere all’ex amante di raggiungerla, per poi sentirsi rimandare da lui un’immagine di lei di un non ascolto, di un non esserci per gli altri.

I luoghi della “dolce vita” romana sono suggeriti (via Veneto è l’inquadratura di un mezzo tavolino di un bar, la mano e la voce del cameriere) mentre quelli cari al regista, come il cinema d’essai di Trastevere, con una lunga coda di persone tra cui la madre, sono rivisitati solo in sogno. Come siamo lontani dalle lunghe scorribande in Vespa di Moretti in Caro Diario, in assolati giorni d’estate, alla riscoperta dei luoghi della sua infanzia, e anche dalle corse festose, di notte, di Aprile, gettando al vento ritagli di giornali conservati per anni, nell’ebbrezza per la nascita del figlio e forse di una nuova stagione politica! L’unica indicazione che Margherita dà ai suoi attori è più sul non essere che sull’essere: non essere il personaggio, ma stargli accanto. Questo suggerimento, (che è poi l’opposto del metodo dell’Actor’s studio) anche se in seguito lei stessa ammetterà di non conoscerne più il significato, viene, però, ripetuto troppe volte nel film per non pensare che possa esserne una chiave di lettura. Sappiamo che Agata Apicella Moretti morì durante le riprese di Habemus Papam; la perdita della madre era stata già rappresentata in La messa è finita, così come la nascita del figlio era stata ricostruita in “Aprile”, ma nei film precedenti l’attenzione era sul protagonista:” Perché mi hai fatto questo? Grida Don Giulio davanti al corpo dell’anziana donna e quando la sorella gli legge una lettera del padre lui alza il volume della radio e “ Sei bellissima “ di Loredana Bertè copre parole d’amore. Così, Nanni Moretti, interprete di se stesso (come sua madre) in Aprile, si preoccupa di come lui avrebbe dovuto comportarsi durante il parto della moglie, rimprovera alla propria madre perché andasse a scuola durante il periodo del suo allattamento, addormenta il figlio neonato appoggiato sulla spalla cantando “Sono un ragazzo fortunato”con Jovanotti dallo stereo altissimo.

Diverso il “sentire” dei personaggi e della colonna sonora nell’ultimo film: nessuna composizione originale, né canzoni italiane, ma suggestive sonorità “lontane”,tra le quali otto pezzi dell’estone Arvo Pärt , tre dell’islandese Olafur Arnalds, e una Baby’s coming back to me di Jarvis Cocker, che con la dolcezza di “She was just sleeping somewhere/Now she’s come back to hold my hand/… sembra offrire l’unica via di consolazione. E’ una colonna sonora che non entra, come nei precedenti film, da protagonista, quasi ad imporsi con violenza, ma che accompagna i protagonisti, come appunto fa il regista, che resta accanto a Margherita, mentre lascia andare verso la fine il suo film, quasi le fosse ormai estraneo; accanto a Giovanni che per assistere la madre in ospedale, portarle i pasti cucinati in casa (“il pesce spinato come piace a te”) chiede dapprima un’aspettativa dal proprio lavoro, e quindi, in prossimità della morte di lei, si licenzia, lasciando allo spettatore l’ interrogarsi sul suo futuro (un suicidio?); accanto a Barry che inventa aneddoti su un film con Kubrick che in realtà non ha mai girato, dimentica le battute per un deficit patologico della memoria, che rivelerà solo alla fine, chiede di uscire dal film, di tornare nella realtà, ma al termine delle riprese lascerà la memoria del corpo fluire in un ballo con una comparsa, una donna un po’ felliniana, l’unico momento di distensione di tutta la troupe, non a caso sull’unico pezzo italiano, Charisma, di Donti e Colliva.

C’è un’altra danza nel film, di una lei che volteggiava leggera, ma solo evocata dal racconto di un allievo della professoressa, la madre, in gita scolastica, quando lei è già morta. E’, questo, insieme alla scena finale (ricordo? sogno?) in cui Giulia Lazzarini, sul letto di morte, dice di pensare al domani, l’ultimo tassello della costruzione della figura della madre che è l’opposto degli altri personaggi: lei sta perdendo la vita ma è l’unica che acquista in consistenza, calma e presente a se stessa, e non è un caso che a lei sia affidata un messaggio di speranza.

E’ consapevole della gravità del suo stato, di non poter fare tre passi, come la sollecita la figlia per confortare se stessa, non chiede neppure ai medici, l’accetta: nell’avvicinarsi della fine sa solo più di loro che la migliore cura sarebbe la vicinanza dei familiari, non continua però , solo “che ti facciano restare ancora un po’”, scrive quando non ha più voce. Fino all’ultimo giorno di vita traduce il latino con la figlia di Margherita, come raccontò di Agata Apicella Moretti Luciana Castellina nell’orazione funebre, naturalmente riferendolo al nipote Pietro. Del latino invita a cogliere la precisione, l’animus, non umilia per gli errori, incoraggia i progressi, gli ex studenti la vanno a trovare, in ospedale e a casa, si sentono ascoltati, a suo agio con lei, e anche la nipote l’aveva scelta come confidente. La sua figura è una lezione dell’humanitas dei classici che tanto amava, è un’ in-segnante nel vero senso della parola, persona che lascia il segno. Evoca, la sua, quella grande lezione di decenza quotidiana, la più difficile delle virtù, che Montale, nella sua Visita a Fadin, attribuisce all’amico poeta morente. E allora, forse, il reiterato invito di Margherita a non essere il personaggio, ma a stargli accanto, più che un’indicazione di regia, potrebbe ricordare a noi stessi che non possiamo vivere la morte di chi amiamo, ma solo stargli accanto.

 

 

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