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Tennis: Cherchez la femme

Chi è stato l’ultimo cavaliere a rendere omaggio alla propria dama?

Forse Federer, a Shangai nel 2006, quando dedicò il trofeo degli ATP finals alla moglie Mirka, grazie alla quale era diventato “uomo e campione migliore”. Naturalmente i tennisti continuano ad essere i moderni cavalieri  medievali, come li definiva Beniamino Placido, erranti da un torneo all’altro della Terra  nella lunga stagione primaverile ed estiva, per tornare a casa d’inverno a ritemprarsi e ad allenarsi con i maestri d’arme. Ma nelle leggende i cavalieri non esistono senza una donna per cui giostrare, senza un  fazzoletto con i colori di lei da annodare alla lancia, e le principesse, tra le dame di corte, soffrono mentre i loro amanti combattono o sono lontani. Anche nei film sull’epica medievale le riprese si dividono fra il ferro e le armature che cozzano nei duelli, e i primi piani delle Ginevre  che in tribuna trepidano per i loro Lancillotto e nascondono il viso allo sgorgare del sangue.

Guarda come soffre” diceva Rino Tommasi  negli anni '90 quando la telecamera indugiava su Barbara Becker, maschera tragica, con gli occhi chiusi mentre “sentiva” che il suo Boris avrebbe appoggiato la punta delle lingua sulle labbra e tirato una seconda battuta a 200 km all’ora. “Lasciala lì, Rino” rispondeva a volte spazientito Clerici, che non voleva perdersi neanche un punto, e invocava un replay su una bella azione in campo piuttosto che seguire “le solite scene” nel box del campione tedesco. In altre occasioni, invece, era lui  a provocare il compagno specie quando Jessica Stich “cercava” la telecamera. “ Guardala, Rino, guardala come recita, come si mette in posa, ma d’altronde è un ‘attrice televisiva…Insopportabile” concludeva poi.

-Ma che cosa sta girando il regista, Via col vento?- commentava ironicamente Clerici alla finale parigina del 1996 fra Kafelnikov e Stich, quando nei pochi secondi fra un punto e l’altro del tie break dell'ultimo set, lo schermo era diviso in due primi piani del campione russo e della fidanzata Masha, che lo incitava in tribuna strappando la scena alla signora Stich- Basta Rino, questo deve aver visto troppi film d’amore, non capisce niente di tennis” concludeva rassegnato.

In quegli anni e per i primi del nuovo secolo, il copione però rispettava le immagini: dopo una tale partecipazione emotiva in tribuna, in diretta video, le mogli, le fidanzate o le ragazze di turno dei campioni venivano pubblicamente nominate e ringraziate dai loro partner nel discorso alla cerimonia di premiazione, e magari ci scappava un’ultima inquadratura con la lacrima al ciglio. L’omaggio del cavaliere alla dama, prima di offrirsi solo, nell’arena, con in mano la coppa, agli scatti dei fotografi.

Negli ultimi anni, invece, specie da quando negli slam si sono imposti Nadal, Djokovic e Murray, è arrivato il “my team”. Delle grandi battaglie di primavera e d’estate, da Parigi a Londra, da Melbourne a New York, la fine è nota: il vincitore ringrazia “my team”, lo sconfitto si congratula con “your team”. Ma il tennis non dovrebbe essere uno sport individuale, come ci ricordano sempre i detrattori della coppa Davis? Curioso: come se dopo magari cinque ore di solitudine nel duello sul campo entrambi gli avversari sentissero il bisogno di staccarsi dall’immagine romantica del cavaliere,  facendo emergere lo scenario  forse più realistico dell’atleta, macchina corpo-mente intorno alla quale  si adoperano fisioterapisti, preparatori atletici,  allenatori, psicologi, medici,  e anche con ausilii chimici e meccanici.

La regia televisiva non ha seguìto, però, tale cambiamento, e rimane legata alla triade medievale: cavaliere, dama, scudiero o compagno d’arme. Così le inquadrature cercano, fuori dal campo, il volto imperturbabile del coach (“alcuni dei quali, Rino, sono semplici portaborse, amici che si occupano delle prenotazioni aeree e alberghiere”diceva spesso Clerici) ma soprattutto si soffermano sulla girlfriend, con il nome in didascalia. La”sofferenza” dipinta sul volto tirato di Jelena Ristic durante i match del futuro marito Djokovic ci ricorderebbero la maschera della signora Becker; i tratti soavi di Kim Sears, la fidanzata di Murray, evocano quelli di Lara Rafter,   ma, mentre tra un punto e l’altro degli ultimi games  dello scorso Wimbledom  la telecamera coglieva lei, che si mordeva le labbra, stringeva una ciocca di capelli, congiungeva le mani, mancavano le voci dei telecronisti di un tempo che si improvvisavano interpreti dei sentimenti delle donne in tribuna, mancava un Roberto Lombardi quando sussurrava  “ Oh Lara, Lara, potrei perdermi in te”, per poi riprendersi e commentare tecnicamente il match.

Da parte di Andy Murray, nella sua domenica di gloria, nessuna dedica particolare a Kim,  stretta però a sè,  e compresa naturalmente nel suo “my team”. Anche la donna più importante nella vita di Andy, la madre Judith,  stava per essere addirittura dimenticata dal figlio nella rituale scalata al suo box; qualcuno lo richiamò, indicandogliela, in disparte, qualche fila sopra, e lui tornò indietro per abbracciarla, schermendosi, e gli crediamo, per non averla individuata prima. Eppure la tv, durante la finale, ci aveva suggerito un altro film, le telecamere avevano subito trovato Judith, l’inquadravano di tanto in tanto, certo, non quanto Lendl, il secondo padre, in prima fila, secondo la scenografia del team. Da almeno due anni, da quando il figlio ha vinto il primo slam, Judith ha cambiato atteggiamento in tribuna: è come impietrita, come un coach uomo, e immaginiamo quale controllo abbia esercitato su se stessa, che prima esplodeva in urla e gesti di incitamento o di delusione. Sarà riuscita a concentrarsi solo su ciò che faceva il figlio in campo in quella domenica di sole, o si sarà concessa a improvvisi flash back, sul suo sogno di ragazza, frustrato dalle difficoltà economiche, di essere lei un giorno lontano la speranza della Gran Bretagna tennistica, e avrà rivolto, ancora una volta, un pensiero riconoscente alla maestra che fece scudo con il suo corpo ad Andy  durante la strage nella scuola elementare di Dunblane?

Anche il padre della campionessa di Wimbledon, Marion Bartoli, era seduto in disparte, qualche fila dietro Amélie Mauresmo e gli altri del team, ma almeno lei, nel suo discorso di premiazione si è ricordata di lui. Che cosa ci suggeriscono le storie dei trionfatorii di Wimbledon del 2013? Che per crescere e vincere le proprie battaglie dobbiamo prima staccarci dai nostri padri e dalle nostre madri e affidarci alla competenza di maestri o colleghe più grandi che abbiano già compiuto l’impresa, e non soltanto l’abbiano sognata con noi? Il match di Bartoli contro Lisicki è stata una vera prova di coraggio: ha aggredito l’avversaria entrando bene in campo e anticipando i colpi; nessuna arma nuova, solo il giorno perfetto in cui riesce con facilità tutto ciò per cui hai lavorato a lungo. Nella sua precedente impresa a Wimbledon, nel 2007, quando aveva battuto in semifinale la favorita Justine Henin, si era costruita un cavaliere ideale in Pierce Brosnan, l’allora James Bond: nell’intervista alla fine di quel match infatti dichiarò di avere intravisto l’attore in tribuna e di essersi ispirata a lui per sfoderare il suo tennis migliore. Curiosa, pur se dolorosa coincidenza anche a Wimbledon 2013 : proprio nei giorni più felici della vita tennistica di Marion, l’attore annunciava di aver perso  la figlia per lo stesso tipo di tumore che lo privò anni fa dell’adorata prima moglie.

Le riprese televisive della prima settimana di tornei nel 2014 non hanno mutato copione: a Doha la telecamera si soffermava spesso su Francisca Perello, Nadal’s Girlfriend, ma nell’intervista sul campo al tennista spagnolo, alla domanda  su come avrebbe trascorso il capodanno, lui rispose “con i miei genitori e con gli amici”.

A Brisbane, invece, Federer, l’ultimo cavaliere, sconfitto in finale da Hewitt, ricambiando il sorriso di  Mirka in tribuna, alludeva alla  nuova maternità con l’annuncio che l’anno prossimo sarebbe ritornato anche con un nuovo componente della famiglia.

Il lettore che mi ha seguito fin qui però è autorizzato a farsi un’altra opinione su quanto ho scritto, e pensare che siano finiti i tempi in cui la starlette, la modella o l’attricetta di turno si accompagnava al tennista per flirtare con il teleobiettivo e ricevere una dedica da lui anche se si conoscevano da poco tempo. Ora Francisca, Jelena e le altre sono spesso ragazze  già laureate, che frequentano masters, e non hanno bisogno di pubblicità gratuita;  forse  si sentirebbero addirittura imbarazzate se si dedicasse a loro la vittoria in uno slam, consapevoli del lavoro del team e dell’impegno del loro uomo. E poi, metterci il cuore per vincere un torneo ha qualcosa a che fare con l’amore? Forse no, non più.

 

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