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Storie di Boxe

Dieci anni fa ci lasciava Parisi, l’ultimo Flash del pugilato italiano

 

Oro a Seul '88, due volte mondiale pro. Stella rara della nostra boxe, un uomo prigioniero della sofferenza

 

di Dario Torromeo

Erano le 20:40 del 25 marzo 2009. Sulla tangenziale, nel tratto tra Oriolo e Medassino di Voghera nel Pavese, una BMW M6 si scontrava frontalmente con un camion. La polizia accorreva velocemente sul luogo dell’incidente, chiamata dal conducente del camion miracolosamente illeso. Morto sul colpo l’uomo che era al volante della BMW. Giovanni Flash Parisi se ne andava per sempre a 42 anni, lasciando una moglie e tre figli. 
Rendo omaggio al campione con un racconto diviso in tre parti.
Nella prima c’è il ricordo dell’uomo, del protagonista della nostra boxe.
Nella seconda parla chi ha vissuto accanto a lui l’avventura agonistica e chi ha scritto la storia di questo sport in Italia.
Nella terza c’è una mia testimonianza: il racconto di una giornata particolare a Seul, nell’anno di grazia 1988.

 

 

 

 

 

 

 

Giovanni Parisi è stato l’ultimo Flash, l’ultima stella a illuminare il  pugilato italiano.
Dopo di lui ci sono stati altri campioni, grandi pugili. Ma lui era diverso, unico.Per vocazione ribelle, amava sentirsi alla guida del movimento. Ha guadagnato come pochi nella storia della nostra boxe. I pugili prendono pugni, non si può salire sul ring per due soldi. Lo ri­peteva in continuazione. Combatteva la sua battaglia e gli piaceva trascinare an­che gli altri nella guerra.La boxe è sem­pre stata la sua vita. L’esistenza, fuori dal ring, l’ha dedicata soprattutto alla mam­ma, Carmela. Al ricordo delle lotte che quella donna ha fatto per garantire un fu­turo ai suoi figli.

Non ho conosciuto Parisi nel pro­fondo dell’anima, pochi ci sono riusciti, di lui fighter però penso di sapere quasi tutto.
Era una rarità per la boxe italiana. Aveva il pugno da knock out, merce rara dalle nostre parti. E così aveva vinto un’Olimpiade, quella di Seul 1988, mettendo giù quasi tutti i suoi riva­li. Li aveva stesi, ridotti alla resa, come aveva fatto con la bilancia.
Era arrivato in Corea per una serie di fortunate coinci­denze. La Federazione non aveva previsto la sua parte­cipazione, poi un altro az­zurro si era fatto male e lui l’aveva sostituito. Aveva combattuto da peso piuma.
Impresa impossibile, pen­savano gli altri. Vinco l’oro, pensava lui. Una dieta pazzesca, una serie di match entusiasmanti ed era arrivato dove vole­va.

Aveva pugno Giovanni, ma aveva an­che la testa. È stato uno dei pochi italiani ad affidarsi a un professionista che ne curava immagine e pubbliche relazioni, Sabatino Durante: un professionista che ha fatto molto per lui e per la nostra boxe.

Il mestiere di pugile non era da affrontare a cuor leggero. E così lui ave­va fatto. Prima con Silverio Gresta, poi con Elio Ghelfi e nella storia dei trionfi finali con Salvatore Cherchi.

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Ed era arri­vato due volte al mondiale. Prima nei leg­geri, poi nei superleggeri. Un’unica mac­chia, il match contro Julio Cesar Chavez. Era la sfida che avrebbe potuto cambiare il volto di questo sport in Italia.
Giovan­ni non era riuscito a combattere al me­glio quella battaglia. Una serie infinita di rinvii e lo stress che cresceva avevano generato l’incontro meno cruento della sua car­riera sul ring di Las Vegas.
Lui, campione che dava un segno speciale ad ogni match, usciva da quel mon­diale senza segni e con po­ca gloria.
Ma Giovanni non è stato certo solo quella notte nel deserto del Neva­da. É stato un grande, un campione che ha segnato la sua epoca e portato la boxe italiana in prima pagina.

Ha combattuto tante guerre e le ha vinte. Ha battuto Altamirano, Pendleton, Rivera, Fuentes. É andato anche a caccia di quel terzo mondiale che nessuno nella storia italiana aveva mai conquistato. Ma non ce l’ha fatta.
Uscito dalla boxe, non è pe­rò riuscito a staccarsene. Nonostante la travolgente passione che provava per Sil­via Hrubinova, la splendida modella slovacca che aveva sposato. Nonostante l’amore per i suoi tre figli: Giovanni Carlos, Angel Sofia e Isabel Carmela.

Il pugilato era sempre in cima ai suoi pensieri. Si era così lascia­to coinvolgere nell’organizzazione, nella creazione di una società, nell’ennesimo progetto di rilancio della boxe italiana.
Lo ricorderò sempre con quel sorri­so sornione. Ti guardava e ti giudicava, Giovanni. Sembrava facile entrare nel suo mondo, era invece quasi impossibile. Diffidente per natura, non si lasciava mai andare del tutto. Portava nel cuore la sofferenza, convinto che fosse un peccato da scontare.

É stato il campione della gente per tutta la carriera, durata 18 anni, dall’oro olimpico all’ultima sfida sul ring del Pa­lalido contro Frederic Klose nel 2006., una brutta chiusura segnata da una struggente lettera scritta dal figlio e pubblicata sulla Gazzetta dello Sport.
Era un picchiatore che affascinava le folle. É stato l’ultimo eroe di una boxe che va lentamente sparendo. Quell’impatto fron­tale sulla tangenziale di Voghera ha chiuso la storia di un uomo che non ha regalato solo un oro olimpico e due mondiali professionisti all’Italia .
Le ha anche dato dignità, quella che lui invocava per chiunque salisse su un ring. E per questo si è battuto sino a quando un tragico incidente ce l’ha portato via. Uno schianto terribile, la fine di un uomo che per lunghi momenti della sua vita aveva smesso di lottare. Ma che sul ritrovava come per incanto forza, determinazione, viaggiando lungo la strada del sacrificio. Quella non l’ha mai tradito.

DICONO DI LUI

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NINO BENVENUTI
(campione olimpico, due volte mondiale professionisti)
“Portava sul ring la magia del pugilato classico”

“Non ho avuto rapporti stretti o frequentazioni costanti con Giovanni, eravamo pugili di epoche diverse. Ma le volte che ci siamo incontrati ho sempre visto un uomo rispettoso, educato e umile. Come pugile era bravissimo: tecnico, intelligente, prendeva pochi colpi. Portava sul ring il pugilato classico che facevo io. Senza talento non si vince l’Olimpiade e il mondiale professionisti. Attualmente al suo livello non c’è nessuno”.

PATRIZIO OLIVA 
(campione olimpico e mondiale professionisti)
“Pugile completo, capace di risolvere il match con un pugno”

“Come persona l’ho incrociato poco. Un paio di volte a Seul ’88, dove facevo il telecronista per TMC, e in qualche altra occasione da professionista. Era forte, cosa altro si potrebbe dire di uno che ha vinto tanto come lui? Un grande campione dotato di una dote che io non avevo, poteva risolvere il match con un solo colpo. Ma aveva anche una buona tecnica, velocità di braccia, personalità sul ring. Peccava di un eccesso di tensione in avvio dell’incontro e questo gli è costato più di una partenza in salita, con qualche atterramento. Il suo gancio spettacolare gli permetteva di uscire da molte situazioni delicate. Un grande del nostro pugilato”.

MAURIZIO STECCA
(campione olimpico e mondiale professionisti)
“Per sempre nella storia, come i più grandi”

“Ha centrato un difficilissimo oro olimpico, ha conquistato con spietata determinazione il mondiale professionisti. Aveva in mente un obiettivo e lo inseguiva con ogni mezzo. Costante nella preparazione, predisposto quasi naturalmente al sacrificio. Ne è un esempio il modo in cui è riuscito a rientrare nel limite dei piuma a Seul ’88. Sarà per sempre nella storia, come da noi riescono a fare i più grandi. Benvenuti, ad esempio. Un campione che sapeva con certezza cosa volesse dal pugilato. E l’ha avuto, con pieno merito”.

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SANDRO MAZZINGHI
(due volte campione del mondo professionisti)
“Determinazione e sacrificio, questo ci accomunano”

“Giovanni Parisi è stato l’unico vero combattente di un’era ormai finita, quella del pugilato italiano afflitto da una crisi costante. Ragazzo semplice e umile che ho conosciuto a fine anni Novanta , in occasione del Mondiale tra Alessandro Duran e Michele Piccirillo. Una carriera strepitosa fatta di determinazione e sacrificio, aggettivi a me comuni perché campioni lo si diventa dopo avere provato cosa significhi sacrificarsi per centrare l’obiettivo che stai inseguendo. Giovanni era così. Oggi lo ricordo con vera ammirazione, se n’è andato troppo presto.  Sono sicuro che avrebbe avuto ancora molto da dare al nostro movimento pugilistico”.

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SALVATORE CHERCHI
(manager e promoter di Giovanni Parisi)
“È stato uno dei più forti pugili italiani degli ultimi trent’anni”

“Giovanni ha fatto il debutto da pugile nella prima riunione organizzata dalla Opi, era l’esordio al professionismo di mio fratello Franco. Ho preso la procura di Parisi in concomitanza del match con Chavez, poi sono riuscito a liberarlo da Don King che voleva farlo firmare con suo figlio. Parisi è stato uno dei più forti pugili italiani degli ultimi trent’anni. Aveva un carattere burbero, ma andava capito. La sua non era stata una vita facile, non era stato fortunato. Ha dato il meglio da peso leggero, velocità e precisione erano la specialità della casa. Avevamo delle discussioni vivaci, ma alla fine ci mettevamo sempre d’accordo. È stato un grande”.

LIVIO LUCARNO 
(maestro storico di Giovanni Parisi)
“Un grande campione, un uomo molto chiuso”

“È entrato nella mia palestra a 13 anni, sono stato sempre il suo maestro. Un pugile bravissimo, un campione. Riusciva a far cose che altri non riuscivano a fare. Era rapido, di braccia e di gambe. Un campione nel senso più ampio della parola. Come uomo l’ho conosciuto molto meno. Ci siamo frequentati esclusivamente in palestra. Era schivo, chiuso, difficile a concedere confidenza. Non ha mai approfittato della sua popolarità. Molti politici hanno provato a coinvolgerlo, lui non ha mai detto sì”.

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MARIO IRENEO STURLA
(medico di Giovanni Parisi)
“Vi raccontro l’anima del campione”

“Una ventina di anni fa eravamo nel salone del Grand Hotel di Castrocaro Terme per un congresso medico. Il professor Santilli, che era il nostro presidente, mi aveva chiesto di portare con me un campione. Ero venuto con Giovanni. A presentare la serata c’era Marino Bartoletti che aveva fatto una domanda a Parisi: Quale è il viaggio che ti è piaciuto di più? Per un attimo Giovanni era rimasto in silenzio, poi con quel tono di voce basso che usava quando voleva che l’uditorio prestasse il massimo dell’attenzione, aveva detto: Quello che faccio dentro la mia anima ogni sera prima di addormentarmi. Questo era Giovanni Parisi”.

SABATINO DURANTE
(PR di Giovanni Parisi, al centro nella foto sopra)
“Cercava l’amicizia, aveva paura di essere tradito”

“Giovanni era veloce e spettacolare sul ring così come era fragile e complicato nei rapporti. Un po’ Baudelaire e molto Prévert. La sua infanzia difficile non lo abbandonò mai: cercava il rapporto sempre, l’amicizia, l’amore. Ma la paura di essere tradito, non capito, gli complicava la vita e le scelte. Campione vero, fuoriclasse pugilistico, un ragazzo che un flash ci ha tolto prematuramente. Riposa in pace Giovanni, abbiamo parlato, discusso molto e a volte litigato. Ti ho voluto bene anche se in fondo non ci siamo mai capiti come avremmo dovuto”.

LAMBERTO BORANGA
(medico, compagno di allenamenti e motivatore di Parisi)
“Velocità e potenza, ma non si è mai liberato della sofferenza”

“Abbiamo avuto un rapporto eccezionale. In pista, quando assieme a Sabatino Durante tiravamo le ripetute sui 400, e nella vita quando dividevamo la stanza d’albergo nelle lunghe preparazioni come le tre settimane a Las Vegas prima del match con Chavez. Era sensibile, introverso, chiuso. Sentiva la mancanza della mamma. Parlava solo quando si sentiva a suo agio. Aveva qualità naturali come velocità e potenza, ha ottenuto grandi risultati ma io sono convinto che avrebbe potuto fare anche di più. Ha sofferto molto e non è mai riuscito a liberarsi totalmente della sofferenza”.

DAVIDE NOVELLI 
(Inviato RaiSport, ha realizzato un documentario su Parisi)
“Sapeva entusiasmare, aveva un pugilato spettacolare”

“Ho avuto la fortuna di seguire per lavoro Giovanni Parisi in due match titolati. L’immagine che conservo come fosse ora si riferisce al mondiale contro Ayers al Palasport dell’Eur, riaperto per l’occasione. Lo vedo correre dopo la vittoria, scortato negli spogliatoi dal suo staff, sui gradini in mezzo alla folla come se si trattasse del presidente degli Stati Uniti portato via di fretta dalla sicurezza della Casa Bianca. Era necessario perché gli appassionati se lo sarebbero portato a casa. Sapeva entusiasmare come pochi. La sua boxe era spettacolare. Possedeva tutto, oltre la proverbiale velocità. Correva nella pancia del Palasport con al collo l’inseparabile medaglione di mamma Carmela. Notai che lo sguardo non tradiva stanchezza, era anzi guardingo, come se il prossimo avversario potesse sbucare nascosto tra la gente da un momento all’altro. Parisi è uno dei pugili che ho più amato, e non solo tra gli italiani. Ci manca”.

IL MIO RICORDO

Incontro Giovanni Parisi all’interno del Villaggio Olimpico.
Ci sediamo su una panchina, ci studiamo, senza scambiarci una parola cerchiamo di capire chi sia l’uomo che abbiamo davanti. Sembriamo due felini che prendono tempo prima di decidere se attaccare, difendersi o fidarsi dell’altro. Poi, finalmente, cominciamo a parlare.
Sopra di noi il cielo cupo di Seul.
Giovanni ha i capelli ricci e un codino alla Camacho che ha già fatto discutere. Volevano farglielo tagliare, non ci sono riusciti.
Sul ring di solito indossa un accappatoio argentato, ma i dirigenti federali non hanno voluto che si presentasse così. È l’unica concessione che lui ha fatto al sistema.

È un ragazzo chiuso, solitario, timido. Solo sul ring riesce a liberarsi da qualsiasi condizionamento. Parla sottovoce, porta dentro l’anima grandi dolori. Il 10 maggio, appena quattro mesi fa, è morta mamma Carmela.
Lui è qui per dedicarle l’oro.
Viveva a Voghera con lei, la sorella Giulia e il fratello Sarino, da quando aveva un anno. Da quando i genitori si erano separati.

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Un banale incidente ha rischiato di rovinargli il sogno olimpico.
Si è fratturato il secondo metacarpo della mano sinistra, un’operazione sbagliata ha reso più complicata la situazione.
È accaduto a novembre. Da allora ha combattuto poco.
Un torneo in Grecia, gli Europei a Torino.
Affronta i Giochi da peso piuma. Una categoria che non è la sua e lo costringe a una dieta pazzesca, assai vicina al digiuno.
«Serietà, volontà, capacità di sacrificio e determinazione. Ecco i segreti di Parisi» l’analisi è del coach Falcinelli.
Giovanni annuisce con la testa. Chiudo il blocco, metto a posto la penna.
Andiamo tutti assieme allo stadio a vedere Panetta.
Va male.
La speranza è che Parisi possa consolarci.
Un lampo.

Il gancio sinistro scatta velocissimo e chiude la corsa sulla mascella di Dumitrescu. Il rumeno crolla al tappeto. Giovanni pensa possa rialzarsi, ma spera che non lo faccia.
Per il suo bene. Mi farà questa confessione a match concluso, indossando uno sguardo da duro che raramente gli ho visto.
Dumitrescu si rialza, barcolla sulle gambe.
È finita.
Sono passati centouno secondi dal primo gong. Giovanni Parisi è campione olimpico.
Fa un salto mortale per festeggiare, poi corre verso l’angolo e abbraccia Falcinelli, Petriccioli, tutti i compagni rimasti a Seul. Piange, non riesce a smettere. Non parla, quando lo fa le frasi gli escono a fatica, interrotte da singhiozzi che scuotono il torace.
Ho realizzato il mio sogno, che non era vincere l’oro, ma prenderlo per dedicarlo a mamma. La medaglia è sua”.

Entro nello spogliatoio. C’è ressa. Parliamo velocemente, lo reclamano in conferenza stampa. L’addetto coreano gli versa un bicchiere d’acqua. Il dottor Rondoni, medico al seguito della nazionale, urla.
Non bere niente se non te lo diamo noi”.
Parisi obbedisce. Deve ancora fare l’antidoping.
È stata una lunga giornata cominciata con una sveglia appena dopo l’alba.
Alle 6:30 è già al peso.
Poi un piatto di rigatoni con olio di oliva e parmigiano, due tuorli d’uovo, marmellata e un bicchiere d’acqua.
A letto e alle 9 eccolo allo stadio.
Alle 10:20 sale sul ring, dopo meno di due minuti è già tutto finito.
Ha la medaglia d’oro al collo. L’ha sognata tante volte, mi dice: «Ma sempre da sveglio, sapevo che era un sogno che si sarebbe realizzato».
Ancora una vittoria della volontà, della capacità di sacrificarsi.
Anche il Mahatma Gandhi ne era convinto.
La forza non deriva dalle capacità fisiche, ma da una volontà indomita”.

Giovanni Parisi ci ha dato una lezione.
Quando si crede che un sogno possa realizzarsi bisogna andare fino in fondo.
Anche se questo vuol dire fidanzarsi con il digiuno, correre in pista mentre gli altri vanno a tavola, avere la bilancia come incubo.
E poi, la rabbia di vincere. È indispensabile sentirla sempre viva, un folletto che si insinua nella tua anima e ti spinge ad andare avanti.
Una vita difficile, la sofferenza di una famiglia divisa quando era ancora un bambino. L’infanzia senza il padre, il trasferimento in un’altra città. Il dolore straziante della morte della mamma.
C’è anche questo dietro il successo di un campione.
Se lo dovrebbero imprimere bene nella testa i signori della boxe.
Qui in Corea i pugili sono dilettanti, ma i giudici sono ladri professionisti” commenta il grande Rino Tommasi.
Al Palazzetto di Seul ho visto cose che voi umani non potreste neppure immaginare.
Sono rimasto disgustato, avvilito.
Il pugilato è sport di sacrificio e non merita di finire nelle mani di chi non ha neppure il pudore di porre un limite alla vergogna.
I signori che dicono sempre sì e spezzano i sogni non si fanno domande.
Loro obbediscono in silenzio.

ORO OLIMPICO, MONDIALE PRO IN DUE CATEGORIE

GIOVANNI PARISI era nato a Vibo Valentia il 2 dicembre 1967. E’ stato campione olimpico nei piuma ai Giochi di Seul 1988. E’ stato campione del mondo Wbo dei professionisti nei leggeri (1992/1993) e superleggeri (1996/1998). Ha disputato 47 match: 41 vittorie (29 per ko), 5 sconfitte, 1 pari. Ha esordito tra i professionisti con Silverio Gresta manager e Renzo Spagnoli organizzatore; poi è passato con Elio Ghefli. Ha chiuso con Salvatore Cherchi.

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