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Monzon e Romersi, due vecchie fotografie risvegliano i ricordi…


Frugando tra i ricordi, Mario Romersi ha trovato due foto che lo ritraggono assieme a Carlos Monzon, con cui ha fatto molte sedute di guanti nella Palestra del Flaminio, quando l'argentino preparava in Italia i suoi campionati del mondo. Compresi i due contro Nino Benvenuti.

Appena ho ricevuto i due documenti, mi è venuta l'idea di renderli pubblici. D'accordo con il mio amico Mario, ho inserito le foto a corredo di due vecchi articoli.
Il primo è un'intervista con Romersi che parla proprio delle sedute di sparring con Carlos il terribile.
L'altro è un vero e proprio salto indietro nel tempo, nel cuore di una Roma così bella da stringerti il cuore anche solo a raccontarla.
Sono due servizi già usciti su questo blog, ma mi è sembrato che stessero proprio bene con le immagini.

Mario, come definiresti il pugile Carlos Monzon?
“Una belva, con un destro micidiale. Un fenomeno”.

E come uomo, che tipo era?
“Scontroso, riservato, poche parole, prepotente”

Era davvero così pesante il destro dell’argentino?
“Provo a spiegarmi. Ogni volta che ti prendeva, ti sentivi come se qualcuno ti avesse tirato addosso un sacco di sabbia pressata. Eri fortunato se andavi a terra. Perché altrimenti, quello ti intronava e poi non finiva di picchiare finché non ti aveva distrutto”.

C’è un colpo che ricordi in modo particolare?
“Mi ricordo la prima volta che abbiamo fatto i guanti al Flaminio. Lo conoscevano in pochi, anche se era lo sfidante di Nino Benvenuti per il mondiale dei pesi medi. In palestra c’era la televisione, tanti giornalisti. Io ero un po’ timido e me ne stavo in un angolo a fare l’esercizio al sacco, lontano da tutti. Mi hanno avvicinato Capo Repetto e Amilcar Brusa e mi hanno chiesto: “Ti va di allenarti con lui?”. Gli ho risposto: “Non ho certo paura”. E sono salito sul ring. Ho alzato il sinistro nel classico gesto di saluto e Monzon mi ha incrociato col destro. Mi è improvvisamente sembrato di essere su un disco volante. Tutto attorno a me girava vorticosamente. Vedevo anche tanti piccoli cinesi che facevano roteare dei piatti su esili bastonicini di legno. Quel destro mi aveva completamente imbambolato”.

E lui?
“Ha continuato a venire avanti e a picchiare”.


Vi hanno fermato?
“Non avrei mai fatto la figura di quello che se ne va al primo cazzotto, anche se terribilmente duro. Ho fatto altre due riprese, ma quel destro non lo dimenticherò mai”.

E poi?
“Il giorno dopo mi sono alzato alle 5 del mattino, ho fatto footing, ho mangiato una bistecca da tre etti e bevuto solo un po’ d’acqua. Come se avessi dovuto fare un match. Alle quattro meno un quarto ero in palestra a scaldarmi. Nel terzo round di guanti l’ho preso d’incontro sul naso col diretto destro e ho sbagliato di un centimetro il gancio sinistro con cui avevo doppiato il colpo. Sabbatini, che era sotto al ring, ha urlato: “Mario, fermati che mi rovini 400 milioni!”. Il giorno prima però, nessuno era intervenuto”.

Quindi non ricordi Monzon come un campione assoluto?
“Ma vuoi scherzare? Era un fenomeno. Per darti un’idea di quanto facesse male, ti dico che quando salivi sul ring contro di lui era come se tu lo facessi a mani nude e lui imbracciasse un fucile. Era devastante. Non aveva il pugno secco, quello che ti stende subito. No, lui era peggio. Con un colpo ti ammorbidiva e con gli altri ti annientava”.

La qualità migliore del pugile, oltre alla potenza del destro, quale era?
“Era scoordinato”.

In che senso?
“Noi pugili guardiamo l’altro negli occhi, lì c’è la verità. All’80%, se sei bravo e attento, capisci quale colpo l’avversario sta per portare. Lui no. Ti sembrava lento, poi vooom e ti arrivava il sinistro in faccia. Faceva un piccolo spostamento, portava in avanti la gamba e vooom ti tramortiva col destro. Poi, ti bastonava senza che tu capissi più da dove partissero i colpi. A quel punto capivi che era inutile guardarlo negli occhi”.


Quante riprese di guanti hai fatto con lui?
“È venuto al Flaminio la prima volta quando ha conquistato il mondiale contro Benvenuti a Roma. C’è tornato per Bouttier, Briscoe e Valdez. Diciamo che ogni volta si fermava per una settimana, in totale avremo fatto più di 100 round. Veniva e voleva fare i guanti con me. Forse perché ero un buon tecnico, forse perché era diventata una sorta di scaramanzia”.

Aveva rispetto per lo sparring?
“Mi avrebbe volentieri messo per terra in ogni momento. Era senza pietà”

Un ultimo episodio da ricordare?
“Facevamo i guanti, io lo stringevo spesso in clinch per riprendere fiato. A un certo punto mi ha morso tra la spalla e il collo. Un dolore terribile, ma lui ha continuato a combattere come se niente fosse”.

Chi c’era in palestra quando vi allenavate?
“Capo Repetto, il suo maestro Amilcar Brusa, il manager Tito Lectoure, qualche volta Rodolfo Sabbatini. E soprattutto, tanta gente. Un centinaio di persone, sembrava di essere a una riunione. Io all’epoca abitavo con mamma e papà al Villaggio Olimpico, a due passi dalla Palestra del Flaminio. C’erano tutti gli amici a vedere me, ma soprattutto Monzon”.

Che memoria ti è rimasta di quei giorni?
“Mi è piaciuti viverli. Tutti, ogni momento”.


Mario Romersi è nato al numero 18 di vicolo Moroni in Trastevere.

La guerra era appena finita e l’Italia faticava a rimettersi in piedi.
Viveva con quattro sorelle, mamma Silvana detta la carabiniera e papà Emilio che guidava i camion della nettezza urbana.
Silvana curava l’educazione dei figli in modo antico, come facevano le mamme di una volta.

In fondo al vicolo, in piazza San Giovanni della Malva, c’era una fontana. Lì andava a lavare i panni. Quando le avevano detto che Mario aveva combinato un altro guaio rovesciando l’olio del mobiliere sotto casa, si era messa in attesa.
Vista l’ombra del ragazzo apparire in lontananza aveva preso in mano una scopa e senza perdere tempo gliel’aveva lanciata contro.
Stock!
Centrato.
Mario la faceva impazzire.

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Al giovanotto piaceva una vita senza regole. Assieme a qualche amico aveva messo su una piccola banda. C’erano Tonino, Er Cippa, Giacani e poi c’era Nando: il cugino di Mario, ma soprattutto il capo del gruppo. Se ne andavano in giro in cerca di guai, pronti a difendere il territorio che erano convinti gli appartenesse senza discussioni.

Ogni volta che quelli di Monte Cucco sconfinavano, la banda di vicolo Moroni si opponeva. Erano sassaiole senza regole, a volte spuntavano delle accette affilate costruite piegando i coperchi di grossi barattoli di pomodori trovati dentro casa. Si combatteva ovunque.

Da quelle parti c’è ancora gente che ricorda una battaglia in piena Festa de’ Noantri. Cicatrici, ferite, un po’ di sangue e qualche ossa rotta. Ma poi, alla fine, andavano tutti assieme a mangiare una pizza. Come se niente fosse.
Roma era così.
Trastevere era zona di duri.

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Al Fontanone del Gianicolo non andavano solo per lavarsi le ferite, ma anche per fare il bagno quando il sole dell’estate cominciava a bruciare la pelle. Era la piscina di chi non poteva permettersi altri lussi. Facevano sega a scuola e se ne stavano lì a sguazzare fino a quando non arrivavano i Carabinieri a cavallo e loro prendevano la fuga raccattando velocemente pantaloncini e canottiere. Ancora tutti bagnati si disperdevano per i vicoli di Trastevere.

Il pomeriggio, quando le finanze lo permettevano, era dedicato al cinema. Tarzan era il favorito. Entravano alle tre e non uscivano mai prima delle otto. Un giorno erano andati a vedere un film con Tony Curtis, pugile sordomuto, e Mona Freeman. Era stato così che Mario, a dieci anni, aveva scoperto la boxe. Aveva visto i guantoni, il ring, i match. E aveva subito capito che quello sarebbe stato il suo futuro.

Era entrato alla Gianicolense nel Cinquantotto.
«Papà me sò segnato, faccio la boxe.»
A casa sbucciava le arance in modo da disegnare una sorta di paradenti, se lo metteva in bocca e fingeva di essere sui ring più famosi del mondo.
Amava la palestra.
Tirava pugni al sacco cercando di non commettere il minimo errore, aveva il libro della tecnica stampato nella mente.

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Pe-Pam, Pam, Pam, Pam, Pe-pam, Pe-pam-pam.

Una musica suonata per conquistare il mitico Klaus che a fine allenamento l’aveva avvicinato.

«Ragazzo, mi stai simpatico. Ti applichi e cerchi di perfezionare il gesto. Ti voglio dire una cosa: ricordati sempre che un match di boxe è come una partita a scacchi».

Romersi non aveva avuto la forza di dire neppure una parola.
Aveva mosso lentamente la testa avanti e indietro, ma dentro di sé aveva pensato: «Ma questo che stà a dì?»
Poi però aveva capito.

«Aveva ragione il maestro. Sul ring se guardi il tuo avversario negli occhi, intuisci quello che sta per fare. Sai che devi impedirglielo e allo stesso tempo devi fare qualcosa che lo metterà in difficoltà. Mossa e contromossa, proprio come a scacchi

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Il ragazzino di vicolo Moroni si stava facendo strada in un mondo difficile come era quello del pugilato professionistico italiano nei primi anni Sessanta.

Romersi non era alto per essere un peso medio, non arrivava a uno e ottanta. Aveva però buona tecnica e pugno pesante.
Peccato che non sempre riuscisse a mantenere la forma tra un match e l’altro. Non era votato al sacrificio.
Agli allenamenti spesso preferiva la pesca.

Da bambino faceva gli ami con le spille che la zia usava per cucire le camicie. Appena poteva, scappava sotto Ponte Sisto («che allora era in ferro e non di mattoni come adesso») e stava ore e ore ad aspettare che un pesce abboccasse.

Quando accadeva, l’esultanza per l’impresa durava un centesimo di secondo perché anche il pesce più tonto riusciva comunque a scappare da una spilla per camicie.

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Mario aveva un record di sette vittorie consecutive quel 22 novembre del ‘69 e sedeva tranquillo a bordo ring nel Palazzetto dello Sport di Roma. Si preparava a gustare una riunione che aveva in cartellone nomi importanti.

Le cose erano improvvisamente cambiate nel momento in cui lo aveva avvicinato il promoter Renzo Spagnoli.

«Mario, sei allenato?»
«Più o meno, perché?»
«Hai fatto sette incontri in dieci mesi, hai combattuto l’ultima volta quaranta giorni fa. Quindi, sei allenato.»
«Ahò, te lo ripeto: più o meno. Che c’è?»
«Le voi otto piotte?»
«Chi devo ammazzà?» e giù una risata.
«José Manuel Urtain rischia di finire il combattimento molto presto contro George Holden, lo stesso potrebbero fare altri pugili in programma. Ci serve un incontro in più, altrimenti questi ci menano.»
«Co’ chi devo fà?»
«Joe Hooks, ha meno match di te».
«Affare chiuso.»

Mario si era alzato, era andato negli spogliatoi, si era fatto prestare pantaloncini, scarpe e conghiglia, si era riscaldato, poi era salito sul ring e aveva battuto Hook per ko alla quinta.

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4 giugno 1976.

Una sera che Mario non avrebbe mai dimenticato.
L’avversario era Roberto Benacquista, romano come lui.
Si combatteva al Palalido di Milano per la cintura tricolore dei medi.

Un match duro, difficile. Equilibrato nei primi round, poi il trasteverino aveva preso fiducia. Il destro entrava preciso nella guardia dell’altro, lo scuoteva. Benacquista sembrava attraversare un momento difficile e dal quinto round in poi il suo rendimento era calato. Nella settima ripresa era ancora un destro di Romersi a fare danni. Apriva un lungo spacco sulla palpebra sinistra del rivale, il medico fermava l’incontro, l’arbitro decretava la fine del match.

Mario aveva vinto per kot, a trent’anni era campione d’Italia.
Si sentiva il padrone del mondo, Superman, l’eroe del Palalido.
Era stato in quel momento che aveva capito di dover dividere la gioia con la persona che gli era stata più vicina, il grande amico Emilio. Il papà.
Si era riempito la saccoccia di gettoni, ne aveva infilati otto nella fessura del telefono e aveva composto il numero.

… 377.

Appena girato l’ultimo 7 sul rotante del vecchio telefono, aveva sentito dall’altro capo del filo una voce carica di emozione.

«Bello, dimme».
«A papà, semo campioni d’Italia.»
«Bello pisellone mio!»

Poi avevano cominciato a piangere, senza riuscire a dire più una parola.

Aveva sposato Gabriella Cenciarelli nel Settanta.
Il giorno del trionfo Roberta e Rita erano già nate, Mario jr sarebbe arrivato qualche tempo dopo. Le cose finalmente giravano per il verso giusto...

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