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Hall of Fame 2022

Mattioli showman in un'esaltante edizione della Hall of Fame del Pugilato Italiano

Premiati

 

È stata un successo la quarta edizione della Hall of Fame del Pugilato Italiano, organizzata da boxeringweb.net a Palazzo Albicini, prestigiosa costruzione del Trecento nel centro di Forlì (foto in alto, da sinistra: Rocky Mattioli, Giovanni Branchini, Annamaria D'Agata, Michele Piccirillo, Valerio Nati). Esauriti i posti in sala; gradevoli, a volte commoventi, addirittura divertenti, gli interventi dei premiati. Davide Novelli e Dario Torromeo hanno presentato la serata, realizzata grazie al determinante e instancabile lavoro di Flavio Dell'Amore, editore e direttore del quotidiano online interamente dedicato al mondo della boxe (oltre trenta milioni di visitatori unici dall'anno  2016 , a oggi).

mattioli

 

Lo showman della serata è stato Rocky Mattioli (premiato dal professor Mario Sturla). Il campione ha ricordato con una parlata in cui si mischiavano affascinanti accenti (abruzzese, milanese, australiano) la sua vita.
“Sono partito da Ripa Teatina che non avevo neppure 5 anni. In Australia ho trovato un ambiente ostile. Ero grasso, non parlavo la lingua e avevo la colpa di essere italiano. Mi insultavano, mi chiamavano mangiaspaghetti, mi dicevano di tornare a casa. E mi picchiavano. Un giorno mi sono stancato di prendere botte e sono entrato in una palestra. Ho scoperto che la boxe mi piaceva. Da quel giorno mi sono impegnato al massimo e sono riuscito a farla diventare il mio lavoro. Quando ho vinto il mondiale contro Dagge, sono tornato in Australia. Mi hanno celebrato con una grande festa, ho fatto il giro del campo di football australiano su una macchina scoperta, c’erano centomila spettatori. Applausi, gente che urlava il mio nome. Un trionfo”.
Hai rivisto quelli che da bambino ti prendevano in giro?
“Certo”.
E…
“Erano diventati tutti miei amici. Pacche sulle spalle, urla: Grande! Sei forte! Viva l’Italia”.

Nati

 

Valerio Nati (premiato da Marilena Rosetti, presidentessa del Panathlon Forlì) ha raccontato quel dolce senso di invidia sportiva che aveva provato nell’assistere alle passate edizioni della Hall of Fame.
“Vedevo entrare nella Casa i miei colleghi e pensavo: il prossimo anno toccherà a me. Poi, arrivava un’altra edizione e io continuavo a pensare il prossimo anno toccherà a me. Ora ci sono anch’io”.
Il romagnolo ha ricordato i successi (gli europei e il mondiale contro Kenny Mitchell), ma anche alcuni particolari di una sconfitta bruciante.
“Il peso è sempre stato un mio problema. Digiunavo e mi allenavo, mi allenavo e digiunavo. Per due volte sono svenuto durante il footing, in un’occasione sono stato addirittura svegliato da un contadino. Sentivo una voce dentro di me: “Io vado avanti, se vuori fermarti fallo pure”. Era la coscienza di pugile che mi diceva di non arrendermi. Prima del mondiale contro Zaragoza a Forlì, ho sofferto in modo pazzesco. Ma a pochi giorni dal match ero in peso e avevo conservato le forze. Poi è arrivata la notizia che lui aveva chiesto e ottenuto un rinvio di quasi due settimane. Sono crollato. Sono arrivato al primo gong che ero distrutto, già sconfitto”.
Non potevi rinunciare al combattimento?
“Certo, ma mi servivano i soldi. Stavo mettendo su casa. Così, ho combattuto”.

Piccirillo

 

Michele Piccirillo (premiato dalla pluri campionessa del mondo Simona Galassi) ha narrato alcuni aspetti inediti della sua vita sportiva.
“Delusioni? Due. La più grande è stata la mancata partecipazione all’Olimpiade di Seul 1988. Ero convinto di essermi meritato il posto, invece portarono Giorgio Campanella. Nei Giochi successivi a Barcellona '92 sono stato sconfitto da un avversario che avevo già battuto nelle qualificazioni, ma ero stato male nei giorni precedenti”.
Da professionista, è arrivato il mondiale.
“Quello contro Cory Spinks ha spazzato via tante voci. Era il titolo IBF, sigla universalmente riconosciuta. Come se fare i mondiali WBU fosse stata una passeggiata. Non credo che avrebbero detto le stesse cose se il campione fosse stato Tyson. È il pugile che rende importante la sigla, non viceversa. Io ho affrontato e sconfitto Randall, Coggi, Alessandro Duran. Credo che, WBU o qualsiasi altra sigla, siano stati match importanti e interessanti”.
Poi, c’è il successo al Garden…
“È stata una grande emozione. Entrare nella pancia del Madison e vedere gli spalti pieni, ventimila spettatori che non sono certo al tuo fianco, ti spinge a dare il massimo. Ho battuto Rafael Pineda nella semifinale per il titolo IBF. È stato un momento bellissimo”.
Cosa è accaduto dopo l’ultimo incontro?
“Non sono più entrato in una palestra. Corro cinque, sei volte a settimana. Del resto ero abituato ad allenarmi tantissimo, con ritmi sempre al massimo. Ora lo faccio per tenermi informa. E…”
E…
“Per accontentare mia moglie che i dice che ho la pancia…”
Michele è in splendida forma.

Branchini

 

Giovanni Branchini (premiato dall’ex campione del mondo Massimiliano Duran) ha ricevuto il premio per il papà Umberto.
“Era un uomo estremamente attento a cosa accadeva nel suo sport. Riceveva decine di giornali da tutto il mondo, non c’era un giorno in cui non spedisse almeno dieci lettere all’estero. Aveva creato una sorta di network, quando Internet era ancora lontano anni luce. Si informava sugli altri pugili, ma soprattutto sapeva esattamente quanto valessero i suoi”.
Era affezionato a qualche pugile in particolare?
“Sicuramente con Tore Burruni aveva un rapporto speciale, in fondo era stato il suo primo campione del mondo”.
Umberto ha sempre detto che il momento più difficile del lavoro era quello in cui si trovava all’angolo di un suo pugile.
“Vero. Per noi l’angolo era una sorta di sala operatoria. Ognuno aveva un compito preciso, ognuno doveva fare esattamente quello che era stato precedentemente concordato. Non si inondava il pugile di mille parole. Gli si dava il giusto tempo per riprendersi dai tre minuti di grande fatica. Se era il caso di prestargli cure, lo si faceva. Poi, quando mancava una manciata di secondi al gong che dava inizio a un nuovo round, gli veniva detto un solo concetto. Era inutile sommergerlo di parole prima, quando non avrebbe prestato attenzione a nessuna di quelle frasi”.

DAgata

 

Anche Annamaria D’Agata (premiata dal dottor Luca Paciolla) ha ricordato il papà, Mario.
“Il passaggio al professionismo è stato duro. Volevano bloccarlo perché, da sordomuto, non avrebbe sentito il gong. C’è voluta una sollevazione popolare, Arezzo intera si è schierata al suo fianco. Sono intervenuti industriali, come Lebole, e politici, come Amintore Fanfani. Alla fine la Federboxe si era convinta. L'arbitro gli avrebbe dato un colpetto sulla spalla per segnalare la fine del round. Ce l’aveva fatta”.
Quanto era popolare dopo la conquista del mondiale?
“Tantissimo. Ad Arezzo gli hanno fatto una festa incredibile, tutti in strada ad applaudirlo”.
Sua figlia Carlotta fa l’arbitro di pugilato. Cosa avrebbe detto nonno Mario?
La signora Annamaria ci pensa su, è in difficoltà, cerca le parole giuste.
“Diciamo che non avrebbe condiviso. Non perché fosse anti femminista, più semplicemente perché per lui non sarebbe stata una buona cosa”.
La boxe entrava in casa D’Agata anche dopo che Mario aveva smesso di combattere?
“È stato un amore che papà ha sempre rispettato. L’affetto ricevuto dalla gente, i successi che gli ha regalato questo sport, non li ha mai dimenticati”.

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Celebrato anche Enrico Venturi, il popolare pugile romano campione europeo dei pesi leggeri nel 1929.

Presenti in sala l’organizzarore Mario Loreni; l’ex ’organizzatore lughese Franco Liverani; l’ex pluri campionessa del mondo Simona Galassi; l’ex campione del mondo dei massimi leggeri Massimiliano Duran; l’ex campione europeo dei superleggeri Primo Bandini; l’ex manager Adriano Branchini; il professor Mario Sturla; l’ex campione dei massimi prima serie 1994 Nino Fiumana; il presidente dell’Edera Boxe Forlì Franco Dall’Agata; gli arbitri Bertaccini, Del Bianco, Nardelli, Stupazzini; Franco Feligioni, sfidante al titolo italiano dei mediomassimi nel 1975; l’allenatore Meo Gordini; Andrea Locatelli.

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Messa in archivio questa edizione, il Comitato Direttivo della Hall of Fame del Pugilato Italiano (i sette giornalisti Gualtiero Becchetti, Flavio Dell’Amore, Franco Esposito, Alessandro Ferrarini, Davide Novelli, Vittorio Parisi, Dario Torromeo) è già al lavoro per l’edizione del 2023, la quinta. Qualche nome è già stato fatto, su altri si discuterà. Sempre nel rispetto delle nostre glorie, e tenendo bene a mente il concetto ispiratore: senza memoria non c’è futuro.

 

I protagonisti della nostra storia. Rocky Mattioli, il Guerriero italo-australiano

RockyMattioli

 

di Dario Torromeo

Il 14 maggio del ’78 l’ho visto combattere per la prima volta da bordo ring.
Rocky Mattioli era campione del mondo dei superwelter per il WBC, difendeva il titolo contro Josè Duran allo Stadio Adriatico di Pescara. C’erano più di quindicimila persone, nonostante la ripresa televisiva.
È difficile capire, per chi non ha vissuto quella realtà, cosa fossero quei tempi. Quale posto occupasse la boxe nel panorama sportivo italiano.
Rocky non si concedeva molto, parlava poco, con i giornalisti aveva un rapporto complesso, era diffidente. Ricordo la prima intervista, nel seminterrato di una palestra romana. Mi aveva dato una mano Salvatore Cherchi, che accompagnava l’italo australiano in quella trasferta. Finito l’allenamento avevamo fatto una breve chiacchierata. Preferiva stare sulle sue, non gli piaceva parlare del privato. Ma anche se aveva risposto senza entusiasmo, mi aveva messo dentro una gran voglia di vederlo in azione. Aveva qualcosa nello sguardo, nel modo di allenarsi, nel confronto con un giornalista sconosciuto, che lo dipingeva ai miei occhi come un uomo pronto alla sfida. In effetti lo era, sempre. Un guerriero che non si tirava mai indietro. Non mi ero sbagliato.

Se lo vedevi sul ring, non potevi non innamorarti di quel campione.
Coraggioso, aggressivo, entusiasmante nella sua opera di demolizione dell’avversario. Giuseppe Signori, un grande giornalista, lo paragonava a Sandro Mazzinghi. E portare a casa un complimento del genere, voleva dire davvero tanto.
Ha combattuto quattro volte al Palasport dell’Eur, a Roma. Non appena i miei concittadini leggevano quel nome, si precipitavano al botteghino. Amavano la sua boxe spettacolare. Oscillamenti sul tronco in fase di avvicinamento, per poi scaricare ganci e montanti una volta agganciato il rivale. Mai un passo indietro, sempre avanti fino a quando la missione non poteva considerarsi conclusa.
Era stato così che il 6 agosto del ’77 aveva conquistato il titolo mondiale. Due sinistri avevano chiuso il conto. Eckherad Dagge, tedesco (sul piano pugilistico) cresciuto prendendo e dando pugni nelle taverne e nei bar di Amburgo, era finito ko. E tutto questo era accaduto a Berlino, in casa del nemico.
Come Mazzinghi, anche Rocky era nato per combattere. Glielo aveva imposto una gioventù difficile. Era nato a Ripa Teatina, in Abruzzo. La stessa cittadina, in provincia di Chieti, in cui era venuto al mondo Pierino Marchegiano, il papà di Rocky Marciano. Non a caso, proprio Ripa Teatina è legata da profondo affetto, chiamiamolo pure amore, ai due Rocky. Li celebra ogni anno in uno spettacolare Festival dedicato al peso massimo, con l’italo-australiano spesso ospite d’onore.
Mattioli aveva cinque anni quando la sua famiglia era partita per l’Australia, destinazione Morwell nello stato di Victoria, non lontano da Melbourne. Erano andati a raggiungere il papà, che lì aveva trovato lavoro.
Rocky era dunque un emigrante, piccolo di età e fisico, incapace di parlare la lingua locale. Un incubo. Ad aggravare la situazione, c’era quel corpo magro, senza muscoli. Smilzo al punto che gli altri lo chiamavano beffardamente acciuga.
La palestra e il pugilato l’avrebbero aiutato a far crescere l’autostima, gli avrebbero regalato coraggio e fiducia, oltre a un fisico compatto e muscoli d’acciaio.

All’epoca dei fatti, Umberto Branchini era già un manager affermato. Rappresentava una rarità nel panorama italiano. Era uno che si documentava leggendo qualsiasi pubblicazione al mondo parlasse di boxe. Su una rivista australiana, Fighter, aveva scoperto il nome di Rocky. Aveva cominciato a seguirne le imprese. Quando Efisio Pinna, pugile della sua scuderia, era stato ingaggiato per un match in Australia, aveva deciso di inviare laggiù suo figlio. Avrebbe avuto il compito di seguire il peso leggero cagliaritano e allo stesso tempo prendere contatto con questo Mattioli.
Giovanni Branchini aveva diciotto anni, lavorava per il mensile National Geographic. Si trovava in Indonesia per un servizio fotografico.
Veloce inciso. Un salto nel tempo. Oggi Giovanni è diventato un importante procuratore di calcio. Un nome, tanto per capire di cosa io stia parlando. Ha portato all’Inter, Ronaldo Luis Nazàrio de Lima. Il Fenomeno. Ma all’epoca, parlo della seconda metà degli anni Settanta, era ancora indeciso su cosa fare da grande. L’idea sarebbe trovata qualche tempo dopo. Ricordo il momento in cui mi ha confessato l’intenzione di lasciare la boxe, sport in cui lavorava a tempo pieno. La amava, ma già vedeva le complicazioni che nel tempo sarebbero arrivate a caricare di nuvole nere il panorama. Eravamo a Jesi, nel maggio dell’87, per il match tra Angelo Musone e Leon Spinks. Passeggiando nel pomeriggio, mi aveva detto cosa avrebbe fatto della sua vita lavorativa una volta rientrato a Milano. Il calcio, ecco quale era il suo futuro.

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Torniamo al campione.
Dopo avere visto all’opera Rocky, Giovanni lo ha contattato. Mattioli era un pugile spettacolare, anche se ancora un po’ grezzo (ci avrebbe pensato Ottavio Tazzi, alla Doria di Milano, a limare tecnica e strategie). Non avrebbe deluso.
A Umberto Branchini era sempre piaciuto tanto.
“Uno dei più grandi che io abbia mai amministrato, un tenore che aveva il do di petto. Grande pugile, uomo esemplare. Vorrei averne avuti altri come lui” (cit. da L’avventura, l’incredibile storia di Umberto Branchini, scritto da Mario Bruno per EDB Libri).
Mattioli entrava nella storia della boxe italiana nella seconda metà degli anni Settanta. Il 3 aprile ‘76 affrontava Bruno Arcari a Milano.
Il 34enne Bruno saliva dai superleggeri, Rocky era un 23enne dalle grandi potenzialità. Finiva pari, applausi per tutti.
Mattioli era una macchina da guerra, puntava e attaccava. Aveva rapidità nell’azione a corta distanza, possedeva una forza di volontà eccezionale. Vinceva il titolo contro Dagge, lo difendeva contro Elisha Obed e Josè Duran, entrambi battuti prima del limite.
Lo perdeva contro Maurice Hope, al Teatro Ariston di Sanremo in un match altamente drammatico. Era il 4 marzo del 1979. Rocky arrivava alla sfida dopo un brutto infortunio subìto nel match contro Freddie Boynton sei mesi prima. “Frattura alla mandibola” aveva sentenziato il medico a bordo ring, diagnosi in seguito confermata.
Recupero veloce, avversario tosto. Hope era uno che sul ring si faceva rispettare. E poi, quella notte, tutto congiurava contro il nostro campione.
Gong, primo round.
1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12.
Mattioli andava giù, un gancio sinistro dell’inglese lo centrava alla mascella e gli infliggeva il knock down. Istintivamente, proteggeva la caduta appoggiando il guantone destro sul tappeto. Ma lo appoggiava male, si fratturava il polso. Erano passati appena dodici secondi dall’inizio del mondiale.
Combatteva otto riprese sopportando un dolore pazzesco, usando solo il braccio sinistro. Reggeva il confronto, impari sul piano fisico e psicologico. Alla fine, nell’intervallo tra l’ottava e la nona ripresa, si arrendeva. Il titolo volava in Inghilterra.
Hope prometteva una rivincita, teneva fede alla promessa.
Il 12 luglio 1980, al Conference Centre di Wembley, i due si ritrovavano sul ring. Il fatto che il nostro pugile avesse contrastato per oltre metà match l’avversario, potendo usare solo un braccio, aveva reso ottimisti tifosi e giornalisti italiani. Le cose però non sarebbero andate come molti speravano.
Mattioli attaccava, pressava, si muoveva sul tronco. Ma non tirava colpi, o almeno ne tirava troppo pochi per sperare di vincere. Maurice Hope lo dominava. E conservava il titolo in un match che si sarebbe sempre portato dietro un alone di mistero. Rocky non ha mai spiegato perché sul ring si fosse comportato in modo così inusuale per lui.
Tornava a combattere, metteva assieme cinque vittorie e una sconfitta. Poi, si ritirava.
Conclusa l’avventura sul ring, si è trasformato in un istruttore, un preparatore atletico. Vive a Milano, è comparso nei videoclip Non è un film degli Articolo 31 e Hiyet Jdida di KarKarda. Ha lavorato anche nel programma televisivo Ti aspetto fuori. Ha pubblicato l’autobiografia: Rocky. Quando suona il gong, combatti e basta (Editore Magenes, 1979).
La sua boxe spettacolare, la generosità sul ring, dove non si è mai risparmiato, ha conquistato il cuore dei tifosi. Si sa, il popolo della boxe, per i guerrieri ha sempre avuto un debole. In questo caso, l’affetto è ampiamente meritato.


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Sabato 29 ottobre nel salone d'onore di Palazzo Albicini, a Forlì, si terrà la quarta edizione della Hall of Fame del Pugilato Italiano. Saranno celebrati sei protagonisti della nostra boxe. Rocky Mattioli di Dario Torromeo è il sesto ritratto della galleria di campioni.

Gli altri cinque:
Enrico Venturi
di Vittorio Parisi
Mario D'Agata di Franco Esposito
Valerio Nati
di Flavio Dell'Amore
Umberto Branchini
di Gualtiero Becchetti
Michele Piccirillo
di Davide Novelli
Li potete trovare in homepage, sotto questa rubrica: 
Hall of Fame 2022.

I protagonisti della nostra storia. Michele Piccirillo, il Gentleman del Ring

Piccirillo

 

di Davide Novelli

Avrebbe potuto fare l’attore, invece pensò bene di spendere nella boxe quella faccia giusta per i polizieschi francesi tipo “I senza nome”. Ruolo del buono o del cattivo sarebbe stato indifferente. Michele Piccirillo, sul ring, era sempre impassibile, mai un accenno di rabbia, emblema del professionista che ha un solo scopo: boxare seguendo la nobile arte del pugilato.
Piccirillo nasce a Modugno, tra Bari e Bitonto. Scipione, papà e maestro, lo porta in palestra e diventa naturale che il piccolo Michele consideri quello stanzone quasi un’ala della casa. Ad appena quattro anni inizia a muoversi in posizione di guardia. È, per lui, ancora un gioco, ma l’insegnamento paterno, l’osservare i pugili in allenamento, e un naturale talento, ben presto lo mettono in mostra come il ragazzo pugliese dal futuro brillante.
Ai tornei vinti da junior segue la convocazione in nazionale. Rischia la chiamata all’Olimpiade di Seoul ’88, ma nella sua categoria c’è Parisi che è più “anziano” (e che vincerà l’oro nei piuma).
Piccirillo diventa l’uomo da podio per i giochi di Barcellona ’92. Ci arriva da favorito per una medaglia, ma un malessere lo taglia fuori dalle fasi finali del torneo. Amen, l’amaro calice della sconfitta rende forti. Oltretutto Michele sarebbe passato volentieri professionista ancor prima dell’Olimpiade.
A 22 anni esordisce tra i pro a Ponte San Giovanni, con una vittoria prima del limite. Dieci successi consecutivi gli danno l’occasione di disputare il primo incontro titolato sulle dodici riprese, l’intercontinentale Ibf dei superwelter, che conquista battendo il messicano Manuel Hernandez per ko alla quarta ripresa.
Piccirillo è inarrestabile, seguono altri sette successi. La sconfitta, la prima, è ad opera del danese Sondergaard nel vacante Europeo dei superleggeri. Altre sette vittorie nette, il passaggio tra i welter e per Michele si apre una nuova chance continentale contro il britannico Geoff McCreesh.
Il pugliese vince per kot alla nona ripresa. Da Re d’Europa va alla conquista del mondiale di categoria nella sigla Wbu, World Boxing Union, la più giovane. Minore? Dicevano così, ma qualche anno dopo con fierezza Michele affermerà: “Se Mike Tyson fosse stato campione Wbu, anche quella sigla sarebbe entrata fra quelle importanti”.
È il ring che fa il campione quindi, non le etichette.

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La conferma arriva dalla sfida mondiale tutta italiana con il detentore della cintura Alessandro Duran.  Due italiani per un titolo mondiale trentatrè anni dopo Benvenuti-Mazzinghi. L’attesa è grande. A Catania c’è grande fermento.
A bordo ring Alberto Tomba, Vittorio Sgarbi, Giuliano Gemma, la bellezza di Alessandra Canale e Nadia Bengala, e Gianfranco Rosi, che di campionati del mondo se ne intende; Luca Cordero di Montezemolo e la stampa che conta.
La macchina della serata è targata Sabbatini-Spagnoli. Dal primo istante Michele Piccirillo veste fedelmente i panni dello sfidante andando all’attacco. Lui e Duran mostrano una splendida scherma, ordinata, pulita, efficace, come tradizione e scuola esigono.
Una prima ripresa infuocata dal pieno repertorio pugilistico di entrambi i contendenti. Il Pala Catania è in visibilio per un Piccirillo inedito. Da tempo la sua boxe elegante e il suo temperamento gentile gli hanno attribuito il soprannome di Gentleman del ring. Ma quella sera, il 19 ottobre 1998, il publiese è un fighter, al suo angolo oltre al papà c’è l’Hall of Fame Sumbu Kalambay.
Duran nella seconda ripresa ferma l’incalzare dello sfidante con un destro corto d’incontro da cineteca. Sono due splendidi pugili che mostrano senza riserva la loro grandezza. Alla terza ripresa esplode lo stadio: il micidiale destro corto d’incontro di Piccirillo, poi doppiato, colpisce alla mascella Duran che va al tappeto. Il campione stringe i denti, non sembra aver patito più di tanto lo shock, finisce il round attivamente.
Quarta ripresa, Michele cresce ulteriormente di intensità. Quinta ripresa, in avvio ancora una volta il diretto destro di Piccirillo fa accasciare alle corde Duran. L’arbitro, dopo il conteggio, non vede o non capisce; decide di farlo continuare ma Alessandro è preda ormai dello sfidante. Il lancio della spugna chiude la questione. Piccirillo, da Modugno, c’è. Finalmente è arrivato. È campione del mondo.
Difenderà il titolo contro Saporiti, ancora con Duran ai punti nella rivincita, e poi contro Acuna, Coggi, Vasconcel, Randall, Crucce e Murray. Per cogliere, oltre alla gloria, anche un poco di ricchezza, Michele firma un contratto con Don King, l’organizzatore più noto e controverso al mondo. Inseguendo il Madison Square Garden e gli altri traguardi mondiali, Piccirillo conquista proprio nel tempio newyorkese contro Rafael Pineda l’accesso al ranking Ibf. Sei mesi dopo può quindi disputare il mondiale di quella sigla a Campione d’Italia contro l’astro nascente americano Cory Spinks, figlio di Leon (l’uomo che batté Muhammad Alì).
Match che l’italiano vince nettamente ai punti, ma quel mondiale non farà in tempo a goderselo perché lo perderà un anno dopo nella rivincita.  
Piccirillo fallirà l’assalto alla corona Wbc dei superwelter contro il nicaraguense Majorga e due anni dopo quello contro lo statunitense Forrest, disputato da campione europeo dei superwelter.
Si ritira a 39 anni dopo aver conquistato il titolo italiano, due europei e due mondiali; dopo aver collezionato 50 vittorie di cui 29 prima del limite, accusando 5 sconfitte, due di queste per ko.
Quella di Michele Piccirillo è stata una carriera splendente, un pugilato fatto di tecnica ed eleganza. Vederlo boxare era talmente bello che sarebbe stato appagante perfino vederlo da solo sul ring. Non frequenta più le palestre, ne ha il rigetto. Naturale, a pensarci, visti i trent’anni di carriera. Oggi più che mai il campione pugliese rappresenta un patrimonio pugilistico prezioso, per nulla sfruttato. È uscito di scena troppo presto e troppo giovane. È un peccato che il pugilato lo ricordi solo negli archivi dei grandi eventi mondiali. 

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Sabato 29 ottobre nel salone d'onore di Palazzo Albicini, a Forlì, si terrà la quarta edizione della Hall of Fame del Pugilato Italiano. Saranno celebrati sei protagonisti della nostra boxe. Michele Piccirillo di Davide Novelli è il quinto ritratto della galleria di campioni. I primi quattro: Enrico Venturi di Vittorio Parisi, Mario D'Agata di Franco Esposito, Valerio Nati di Flavio Dell'Amore, Umberto Branchini di Gualtiero Becchetti li trovate in Homepage, nella sezione riservata alla Hall of Fame. La storia continua...

 

I protagonisti della nostra storia. Umberto Branchini, il Cardinale. Un gigante

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di Gualtiero Becchetti

Era nato a Modena il 17 Luglio 1914, alla vigilia della Grande Guerra che avrebbe cambiato il volto del mondo, ma aveva le proprie radici a Sant'Agata Bolognese, un paesino tra la città della Ghirlandina e Bologna, a due passi dalla provincia di Ferrara.
Era cresciuto tra i cavalli per tradizione commerciale-sportiva della famiglia e nelle nebbiose giornate della pianura emiliana o in quelle torride in cui il sole dà martellate in testa, come scriveva Giovanni Guareschi, sognava di diventare bravo al pari di nonno Fausto e babbo Nello nel condurre il sulky sulle piste delle infuocate corse al trotto.
Ma Umberto Branchini non riuscì ad avverare tale sogno. Uno dei pochissimi che non portò a compimento durante una vita talmente intensa che forse andrebbe moltiplicata per due o per tre...
Ci riuscirono invece il fratello Fausto e il figlio maggiore Marco.
Per il "Cardinale" ci sarebbe stato un futuro ancora più splendido e appagante.
Difficile sapere quando e perché gli venne dato il soprannome di "Cardinale". Da tempi immemorabili si tramanda che sia stato il giornalista Sergio Roscani ad appiccicarglielo. Forse l'aspetto mite e composto, o la parlata sempre tranquilla con la "erre" strascicata, o le formidabili doti diplomatiche, o lo sguardo sereno che infondeva fiducia. Fatto sta che in effetti poteva ricordare la figura di un porporato e tale, ad honorem, divenne per tutti.
Il ragazzo, chiuso a malincuore il capitolo dei cavalli, prese ad amare la boxe e a frequentare le palestre di Modena, incantato dalle tre medaglie d'oro conquistate dall'Italia alle Olimpiadi di Amsterdam nel 1928. Appurato però che i guantoni era più saggio lasciarli indossare ad altri, si ritagliò il ruolo di manager. Un po' per volta. Passo dopo passo. In piena guerra sposò l'amatissima Elena e tentò persino di entrare nel mondo cinematografico di Cinecittà, la Hollywood italiana da poco creata, mettendosi a disposizione di Roberto Rossellini per qualsiasi incombenza. Insomma, non era proprio il tipo che si sarebbe fermato a Modena...
Infatti, iniziando dal suo primo pugile, tal Probo Campioli, iniziò un cammino lunghissimo per il mondo, che l'avrebbe portato in Paesi e città di cui forse allora ignorava persino l'esistenza. Si trasferì a Milano e un poco per volta divenne quasi un perfetto "meneghino". Quasi. Perché in fondo al cuore rimase sempre il caldo sottofondo della sua "emilianità".
Imparò a parlare molteplici lingue, a salire e scendere dagli aerei e dalle navi come se si trattasse di autobus, a trascorrere notti in bianco per trattare match, sedi e borse seguendo le leggi impietose dei fusi orari in un'epoca in cui internet, i telefoni cellulari e i fax sarebbero sembrati strumenti degli extra-terrestri.
La planetaria famiglia della boxe divenne per lui come una smisurata sala d'attesa in cui conosceva tutti, dai più umili comprimari ai temibili uomini in nero, con il Borsalino sulle "ventitrè", che negli Stati Uniti avevano nel tristemente leggendario Frankie Carbo il loro massimo rappresentante. Abilissimo a gratificare i pugili, i maestri e i promoter perbene, il "Cardinale" fu altrettanto abile a sfuggire a Carbo, alle sue striscianti minacce, alle nefaste lusinghe e alla vicinanza dei suoi inquietanti accoliti dalle lunghe fedine penali che di per sé stesse dicevano tutto.
Attraversò da numero 1 il dopoguerra, i mitici anni Cinquanta e Sessanta costellati di immensi campioni, formidabili manager, indimenticati tecnici e straordinari promoter. Fu concorrente ma anche collaboratore, a seconda delle circostanze, di Rino Tommasi, Rodolfo Sabbatini, Vittorio Strumolo, Giovanni Busacca, Renzo Spagnoli, Bruno Amaduzzi, Rocco Agostino e tanti altri dei mostri sacri di un pugilato italiano che sembrava inarrestabile.
Si dice che durante la sua carriera abbia condiviso per ben quattromila volte la gioia della vittoria con i propri pugili. Si dice, perché tanto numerosi sono stati i successi da renderne praticamente impossibile un'elencazione precisa. E anche l'enorme felicità di un trionfo restava sempre contenuta, come si conveniva appunto ad un Cardinale. Al massimo un abbraccio all'atleta, un lieve sorriso e un passo indietro per lasciare agli altri le eclatanti e irrefrenabili manifestazioni di giubilo tra le corde del ring, come se a quel punto il suo compito fosse finito e già dovesse concentrarsi sull'impegno successivo.

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In sessant'anni trascorsi con la valigia ai piedi e lo sguardo sopra e oltre il ring, è riuscito a portare alla conquista del titolo mondiale undici pugili e ben quarantatré alla cintura europea, quand'essa valeva non molto meno di quella iridata.
Burruni, Chionoi, Carrasco, Udella, Cuello, Mattioli, Loris e Maurizio Stecca, Damiani, Nati, Kamel Bou-Ali, Zanon, Minchillo, Manca, Santos, Cherchi, Valsecchi, Udella, Puddu, Nardiello e tantissimi altri che richiederebbero lo spazio di un elenco telefonico...
Quanti pugili, quanti campioni ha pilotato negli impervi sentieri della boxe!
Poi, con l'avanzare dell'età e il progressivo decadere del mondo a cui moltissimo aveva dato, e da cui moltissimo aveva ricevuto soprattutto in termini morali, Umberto Branchini prese dolcemente, quasi in punta di piedi, a farsi da parte. Era nel suo stile. Il Cardinale non aveva voluto i fuochi d'artificio nei momenti del massimo fulgore e non gradiva struggenti note di violino ora che il sole era alle spalle.
I figli Giovanni, Adriano e Marco per qualche anno diedero la sensazione di esserne i degni eredi. Marco (che era stato anche driver, come avrebbe desiderato babbo Umberto) e Adriano (manager) hanno poi preso invece altre strade, demotivati forse da una boxe che somigliava sempre meno a quella vissuta dal padre. Però Giovanni pareva quasi un predestinato e ancora oggi, alla vigilia delle quadriennali elezioni del presidente della Fpi, è difficile che qualcuno non sussurri il suo nome...Ma le sue doti manageriali si sono estrinsecate altrove. Si sono trasferite al Calcio. Alemao, Ronaldo "il Fenomeno", Nakata, Montolivo, Ogbonna, Poli, Pepe, Guardiola sono soltanto alcuni dei prestigiosi personaggi che ha gestito. Come poteva restare nel sempre più povero e malandato pugilato italiano?
Umberto Branchini se ne andava via per sempre il 19 marzo 1997, quando la primavera era ormai alle porte. Ad accompagnarlo erano il dolore e il rispetto dell'intero mondo dei guantoni.
Ora riposa nel piccolo cimitero di Sant’Agata Bolognese, non lontano da Nilla Pizzi, la più celebre cantante italiana degli anni Cinquanta (Vola, colomba bianca vola...).
L’italianissimo nome di Umberto Branchini dal 2004 campeggia nella Hall of Fame di Canastota, insieme a quelli di altri due non pugili, Giuseppe Ballarati (manager e curatore della Bibbia del Pugilato) e Rodolfo Sabbatini (giornalista e grande organizzatore), a due passi da quelli dei formidabili Duilio Loi e Nino Benvenuti.
Tra gli immortali della boxe. Come è giusto che sia. 

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I protagonisti della nostra storia.Valerio Nati, da Forlì al tetto del mondo

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di Flavio Dell’Amore

Un volto e due anime. Grintoso e implacabile sul ring, sorridente e disponibile nella vita di tutti i giorni. È il profilo di Valerio Nati, un atleta che sin dal primo approccio con il pugilato decide di dedicargli tutta la sua passione e la massima professionalità anche a prezzo di notevoli sacrifici.
A nove anni frequenta già la palestra all’Edera Boxe Forlì nel tentativo di emulare suo fratello Luciano, promettente novizio dalla boxe tecnica e spumeggiante. Impressiona subito il maestro Rino Rossi per la tenacia negli allenamenti e per la capacità di combattere ad alto ritmo ma nel 1975 un incidente con la motocicletta sembra compromettere un futuro da atleta. La diagnosi dei medici è preoccupante: frattura multipla agli arti superiori, al bacino, incrinature delle costole.
Valerio esce da questa dura esperienza grazie a una grande forza di volontà e un rigore assoluto nel perseguire il processo di riabilitazione.
Sceglie la Marina militare per il periodo di leva. In un match dilettantistico a Ferrara lo nota il responsabile tecnico FPI Carlo Capo Repetto, che lo chiama immediatamente nella squadra azzurra dove disputa diversi match. Nel 1977 con la maglia della nazionale partecipa al torneo Internazionale di Rimini. Qui approfondisce il rapporto con il concittadino forlivese Giorgio Bonetti allora già attivo procuratore di boxe che lo convince a passare professionista.
L’esordio è a Faenza, il 7 aprile 1978, con una vittoria ai punti su Domenico Palumbo a cui seguono nove successi consecutivi ma anche una grave perdita.
Il fido maestro, la guida professionale e umana, Rino Rossi muore in un tragico incidente e per il giovane forlivese il colpo è molto pesante. Ma non c’è tempo per fermarsi sotto al ring. Un gruppo di amici imprenditori della filiera forlivese del mobile imbottito si rende disponibile per finanziare a Forlì la sfida valida per il titolo italiano dei pesi gallo, da poco nelle mani del bravo lombardo Giuseppe Fossati. Tra il tripudio dei fan locali Valerio vince ai punti grazie a un ottimo finale di match. L’inizio degli anni Ottanta coincide con la consacrazione di Nati a livello internazionale. Dopo una difesa tricolore a spese di Buglione il 3 dicembre del 1980 il 53 kg che ora in molti chiamano Tigre di Forlì sfida nella sua città lo spagnolo Juan Francisco Rodriguez per il titolo europeo vacante dei pesi gallo. Un evento portato abilmente in Romagna dall’indimenticabile Rodolfo Sabbatini che ora cura gli interessi di Valerio, unitamente a Bonetti.
È un match dove il ritmo e l’azione offensiva di Nati emergono e gli consegnano con un successo ai punti la cintura EBU. Al neo campione Boxe Ring dedica la copertina del numero di gennaio 1981. Un anno zeppo di soddisfazioni per Nati. Dopo aver riportato il pugilato italiano in Europa, difende per ben quattro volte il titolo continentale contro Vicente Rodriguez(ko al 5° round), John Feeney ( ai punti), Jean Jacques Souris(ko 2) e Luis De La Sagra (ai punti).
Nel gennaio del 1982, quotato nelle classifiche mondiali, Valerio si esibisce a Castrocaro Terme in quella che sarà una performance da incorniciare . L’avversario è il campione di Spagna Esteban Eguia, che si presenta in Romagna con un palmares di 39 vittorie due sconfitte e due pari. Il campione romagnolo mette al tappeto l’iberico nel quarto round con la sua arma migliore, il montante sinistro al fegato, e lo costringe alla resa nella ripresa successiva.
Nel dopo match Sabbatini informa Nati che ha negoziato una sfida con il campione Wba dei pesi gallo Jeff Chandler per il mese di settembre all’Arena di Verona. L’entusiasmo dilaga, ma in pochi sanno che un avversario assolutamente terribile è in agguato. Nati fatica enormemente a fare il peso e in pochissimi sono al corrente del problema. Accetta di mettere il palio il titolo europeo alla fine di aprile contro Giuseppe Fossati a Lignano Sabbiadoro. Cinque giorni prima della rivincita il campione inizia ad alimentarsi succhiando solo mioglobina dalle bistecche, senza ingerire la carne. Fossati domina nettamente il match su di un debilitato Nati che tocca il tappeto due volte.
Valerio deve ricominciare da zero e lo fa soffrendo contro un Richard Saka che gli strappa il pari a Sassari in novembre. Nel 1983 il terzo match contro Fossati a Bologna, con il desiderio di riconquistare l’Europa, fallisce ma almeno ne esce un pari. La stampa parla di un Nati in declino. L’orgoglio è ancora intatto. Arriva una offerta di Umberto Branchini per un derby tutto romagnolo contro l’imbattuto riminese Loris Stecca in grande ascesa. In palio il titolo europeo dei pesi piuma a Camaiore. Finalmente l’ingresso nella categoria superiore. Stecca vince ai punti, ma Valerio non ne esce ridimensionato. Disputa un match dai grandi contenuti agonistici e torna ad incassare molti complimenti dalla stampa e dai tifosi.
Torna l’ottimismo a Forlì e il binomio Bonetti–Nati sceglie nel 1983 di intraprendere una impresa temeraria. Sfidare a Belfast uno dei pesi piuma più temuti a livello internazionale: Barry Mc Guigan, mai battuto in Irlanda. In palio il titolo Ebu vacante dei pesi piuma. Lo sparuto gruppo di forlivesi che seguì Valerio nella trasferta fa un tifo d’infermo, ma McGuigan è fisicamente troppo superiore al romagnolo che è costretto a cedere al sesto assalto.
Mai Nati aveva perduto due match consecutivi.
Tra il 1984 e il 1986 vince 14 combattimenti, di cui otto prima del limite e nel 1987 si presenta l’occasione di sfidare il francese Marc Amand per il titolo europeo vacante dei pesi piuma. A Forlì, Amand si ferma per una ferita al secondo round. Nati torna campione Ebu a quasi 31 anni.
La prima difesa contro Vincenzo Limatola vede la conferma di Nati, ma in un modo che solleva infinite e dure polemiche. Alla fine del settimo round, in un caotico scambio di colpi, Valerio va al tappeto. Limatola viene squalificato. Altro momento difficile per Nati, che è tornato ad avere problemi di peso e riceve la notizia del ritiro dalle scene dell’amico manager Bonetti.
Il forlivese entra nella scuderia di Umberto Branchini che vanta già Maurizio Stecca, Loris Stecca e Francesco Damiani.

Branchini convince, all’inizio del 1988, Nati a lasciare il titolo europeo per volare a Miami ad affrontare il Campione Wba dei pesi piuma Antonio Esparagoza. Valerio si prepara con enorme impegno, parte con grande ottimismo per la Florida ma alla vigilia del match l’evento viene annullato.
Nel novembre 1988 un’altra grande occasione per Nati. Branchini attira il campione Daniel Zaragoza a Forlì, ma il titolo che l’artista del ko venezuelano mette in palio è quello dei supergallo. L’orgoglio smisurato di Nati lo convince ad accettare due match temerari allo stesso tempo: peso e avversario. Affrontare a 55,338 kg un grande campione come il messicano è una impresa al limite delle sue possibilità. Nella settimana precedente al match Nati si allena e digiuna. Poi digiuna e si allena e in una diretta televisiva mondiale HBO da Forlì, Zaragoza lo batte per ko alla quinta ripresa davanti a 2500 tifosi.

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A 30 anni il tigre è ancora capace di graffiare? La risposta arriva nel dicembre del 1989 a Teramo, con in palio il titolo mondiale Wbo dei supergallo. Lo mette in palio il californiano Ken Mitchell, alla sua terza difesa. Nati inizia bene con un accurato martellamento ai fianchi del pugile di Stockton che, innervosito, al terzo round rifila una testata al romagnolo. Mitchell da l’impressione di poter gestire il match, ma al quarto assalto colpisce di nuovo con la testa. La ferita di Nati è profonda e l’arbitro Wiso Fernandez decide di interrompere il match.
La lettura dei cartellini è generosa per Nati: 40-37, 40-36, 40-38.
Valerio Nati è campione del mondo!
Non mancano le contestazioni al verdetto, ma su una cosa commentatori Tv, stampa e tifosi sono d’accordo: Valerio Nati meritava di chiudere la carriera con un mondiale di sigla.
La difesa della cintura è programmata a maggio 1990 sul ring di Sassari. L’avversario è il 26enne portoricano Orlando Fernandez, un giovane ambizioso e capace di combattere ad alti ritmi. Valerio arriva in terra sarda non senza lottare con la bilancia, ma di fronte ai furiosi attacchi di Fernandez può solo opporre uno smisurato coraggio. Perde per kot al decimo round. L’ultimo ruggito non è stato ancora lanciato. Nell’ultimo match della carriera, disputato il 17 agosto del 1991, Valerio batte a Boville Esteban Perez Quinones per kot al quarto assalto.
Voleva assolutamente quella vittoria per chiudere la sua splendida carriera sul ring. Ma il rapporto con la “noble art” per Valerio non si ferma. Entra nel quadri tecnici federali FPI nel 1991, sono altri 25 anni di successi. Allenatore in varie categorie segue dall’angolo Vidoz, Russo,Valentino, Picardi. Dal 1996 al 2000 è responsabile della nazionale azzurra Junior.
Collabora attivamente con i responsabili della nazionale maggiore, Patrizio Oliva e Francesco Damiani.
Valerio dice sempre che la boxe è un film con un secondo tempo infinito.

Sabato 29 ottobre nel salone d'onore di Palazzo Albicini, a Forlì, si terrà la quarta edizione della Hall of Fame del Pugilato Italiano. Saranno celebrati sei protagonisti della nostra boxe. Umberto Branchini di Gualtiero Becchetti è il quarto ritratto della galleria di campioni. I primi tre: Enrico Venturi di Vittorio Parisi, Mario D'Agata di Franco Esposito, Valerio Nati di Flavio Dell'Amore li trovate in Homepage, nella sezione riservata alla Hall of Fame. La storia continua...

I protagonisti della nostra storia. Mario D'Agata, il piccolo Marciano

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di Franco Esposito

Il soprannome come accostamento, tanto per rendere l'idea, al netto della differenza di stazza. Peso gallo lui, 53 chili; re dei massimi Rocco Marcheggiano da Brockton, Massachusetts, in arte Rocky Marciano: i genitori originari di Ripa Teatina, Chieti. Mario D'Agata il “piccolo Marciano” di Arezzo, patria del bel canto, la splendida facciata della Pieve restituita al suo splendore nel dodicesimo secolo, le musiche di Piero l'Aretino, i dipinti del Vasari, la spettacolare Piazza Grande.
Muto dalla nascita, Mariolino sul ring fa parlare i pugni. E sono urla possenti che frastornano gli opponenti fino a spossarli, a piegarli letteralmente in due, alla distanza. Le riprese si assommano e lui si esprime con ritmi insostenibili per qualsiasi avversario. Leale e franco dentro le dodici corde come nella vita, li stronca tutti.
Un diesel, un fenomeno fisico, Mario D'agata, classe 1926, campione d'Italia, d'Europa, re del mondo. Il primo pugile sordomuto del pianeta conquistatore di un titolo mondiale. L'evento ha una data: 29 giugno 1956, festa di San Pietro e Paolo; una città: Roma; un luogo: lo stadio Olimpico; e una storia da raccontare.
Robert Cohen, tunisino di Francia, il campione in carica. Un precedente li unisce: Tunisi, stadio della Pèpinière, 15 maggio del '54, vittoria ai punti del pugile di casa, protetto e garantito da una giuria amica.
Entusiasta io di esserci, a Roma. É la seconda volta che vedo combattere D'Agata dal vivo. All'istante lo eleggo mio pugile preferito. Seduto e smanioso sul marmo della curva Sud dello stadio Olimpico, mi aggiungo al delirio popolare e ripenso a quando ne ho apprezzato personalità, forza e quel suo incedere imperturbabile e implacabile di assaltatore.
Succede a Napoli, alla Palestra Coni meglio conosciuta come il Gymnasium ai Cavalli di Bronzo. Il teatro San Carlo e Palazzo Reale distanti appena due passi.
Luigi Fasulo, puteolano, l'avversario, in palio il titolo italiano. D'Agata si sbriga in fretta, la pratica risolta in meno di quattro riprese, lo sfidante letteralmente smantellato. Estasiato il napoletano d'adozione Hasse Jeppson, svedese maritato con una napoletana. Il popolare calciatore, l'attaccante centrale costato al Napoli 105 milioni. Una pazzia per l'epoca e nuovo record del calciomercato.
Rivedrò all'opera D'Agata ancora a Napoli, il ring all'aperto sistemato sul palco della fascinosa, suggestiva Arena Flegrea. Uno scenario da sballo e Mohamed Farid, poverino, trattato a mo' di pupazzo, smontato in una manciata di round. Il clou della serata è privilegio del suo amico Duilio Loi, distratto e superficiale in avvio di combattimento. Lo statunitense Charly Douglas, niente di che, tira un destraccio e il grande Dulio per poco non si ritrova con le natiche sulla stuoia.
L' ultima mia vez a Cagliari, Stadio Amsicora, il regno del calciatore Gigi Riva. L'idolo dei sardi, l'isola gioca con lui e con la squadra di calcio, e insieme vanno alla conquista di un impensabile scudetto. Incartato e portato a casa.
Mariolino mette in palio il titolo europeo. Il match si consuma all'insegna dell'equilibrio. Il verdetto premia il pugile di casa. Ma lui non fa una piega, ricopre di elogi Piero Rollo, e sente la vicinanza con il ritiro dal ring. Certe cose non avvengono all'improvviso, le avverti. Il campanello suona, e il piccolo grande Mariolino avverte che il ritiro da programmare è la decisione più sensata e corretta.
Quindi Roma, stadio Olimpico. L'organizzatore è di famiglia ebraica, Carlo Levi Della Vida. Trentottomila persone sugli spalti, una cosa enorme per il pugilato. Passione, tensione, ottimismo, dubbi, fiducia, di tutto di più.
Necessità di pubblicizzare l'evento ha concesso al protagonista italiano sfidante al titolo mondiale una botta di vita non richiesto, alla vigilia dell'incontro. L'organizzazione lo sistema in un albergo di via Veneto, l'Imperiale. Forse è troppo per lui, sempre mite, tranquillo, molto realista, mai superbo o spocchioso; orgoglioso sereno gestore della sua menomazione.
“Non esistono i sordomuti, non esistono muri invisibili, è la gente che non vede. Io sono un uomo fortunato. Madre natura mi ha tolto una cosa e me ne ha regalate cento”.
Sul ring porta grande umiltà e certezze evidenti. La convinzione nei propri mezzi fisici e tecnici è diventata la compagna fedele di tutte le stagioni. Comincia i match ad andatura lenta, d'abitudine. La carburazione difficile come conseguenza di quel suo organismo dalle “pulsazioni basse”. Ma con lo scorrere delle riprese si rivela puntualmente non arginabile. Ferito, il respiro affannoso, le certezze annacquate dai dubbi, Robert Cohen non esce dal suo angolo al suono del gong che annuncia la settima ripresa. L'arbitro inglese Teddy Waltham ne sentenzia la sconfitta per kappao tecnico.
Mario D'Agata è campione del mondo. I romani generosi – e non solo - invadono il ring. Viene portato in trionfo. Arezzo ubriaca di gioia fa festa fino all'alba. E anche il giorno dopo e un altro ancora. Cose da pazzi ad Arezzo, cortei, caroselli, e il fresco campione attraversa la città in auto scoperta. Campione di sventure, è diventato il re del mondo. Prima di lui, solo un boxeur italiano era riuscito a conquistare il titolo mondiale. Il gigante friulano Primo Carnera, a Long Island, Stati Uniti d'America, nel 1933. Mario D'Agata riempie un vuoto lungo ventitrè anni.
E pensare che sfortuna e uomini provano ad abbatterlo con sconcertante ripetitività. Lo mandano al tappeto, forse sperando che non riesca a rialzarsi. Ma lui niente: uomo tutto di un pezzo, e verticale, fatto di puro acciaio, si rimette in piedi da solo. Una, due, tre volte. Il pugilatore che visse più vite.
Dice di lui Andrè Valignat, francesino tignoso e sveglio, gran bel temperamento, la frase tecnica del buon pugilatore: “D'Agata non puoi contenerlo, non puoi pensare di fermarne l'aggressione, è come tentare di spingere una botte piena su una ripida salita”.
Avversari due volte, i giudici francesi li giudicano alla pari sul ring parigino della Mutualitè. Al Palazzo del Ghiaccio di Milano, davanti a dodicimila spettatori, il biondo Andrè decide che la via meno dura per evitare di finire al tappeto sia la squalifica. Tirare testate, non pugni. L'unica forma possibile di difesa come argine non legale. Mariolino è proclamato campione d'Europa.
É la fine momentanea, il punto, a un periodo di inenarrabili peripezie. Come pugile vive infatti tante vite segnate da contrattempi per così dire burocratici e da altri di natura fisica sotto forma di gravi incidenti. Una lotta continua la sua carriera di pugilatore professionista. Le guerre sul ring sono per lui i momenti meno complicati. Faccia a faccia con l'avversario, gli occhi negli occhi, confortati da precise regole. É la boxe, gente.
Privo dell'udito, è come non sentirli i colpi di sbarramento dell'altro. Un paradosso o che cosa? La vera verità è questa: nessun avversario riesce a imporgli uno straccio di knockdown, Mariolino mai finito al tappeto in dodici anni e mesi di professionismo. Sessantadue incontri, 54 le vittorie con 23 conclusioni prima del limite, 11 sconfitte, 4 match pari.
A Los Angeles, 10 febbraio 1959, praticamente lungo la normale parabola discendente della carriera, l'unica volta in cui non riesce a terminare l'incontro. Steve Klaus, il suo manager, segnala all'arbitro che Mario soffre di una ferita all'occhio, non è giusto e neppure salutare che il combattimento prosegua. I pugni di Joe Becerra, tremendo picchiatore messicano reduce da una sfilza di dieci ko in successione, lo hanno scalfito, ma non abbattuto. Formidabile anche come incassatore, il “piccolo Marciano”, è in grado di spazzare via qualsiasi opposizione al suo incedere incessante, con l'avanzare del combattimento.
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Un campione anche di resistenza, resilienza e tenacia, Mario D'Agata. Il terzo di sei figli, Rosa Laurenzi la mamma, il papà maresciallo dell'Esercito. Famiglia povera, l'infanzia di Mariolino nel segno degli stenti. La madre lo iscrive al Regio Istituto Sordomuti di Siena per farlo studiare, crescere, e imparare un mestiere. Mariolino pittore e intarsiatore, precoce autore di piccoli capolavori lavorando ceramica e legno. Un artista, a suo modo.
Lui, la boxe, e un mantra personale che lo accompagna e lo distigue lungo l'intera traiettoria della vita. “La boxe mi ha insegnato a essere forte, a superare gli eventi, gli ostacoli della vita. E a sentirmi uguale agli altri, la cosa più importante”.
Mario D'Agata più forte delle avversità. La prima il passaggio dal dilettantismo al professionismo, non accessibile ai tempi alle persone prive dell'udito.
“Non possono perchè non sentono il suono del gong a fine ripresa”.
Mariolino non ancora il “piccolo Marciano” combatte una lunga battaglia, spalleggiato e sostenuto dalla sua città, Arezzo. La mossa decisiva la confezionano proprio gli aretini con il lancio di una petizione popolare: raccolte migliaia di firme in una settimana, compresa quella di un noto e influente aretino. Il ministro del lavoro e delle politiche sociali Amintore Fanfani. A quel punto, deve piegarsi la Federazione Pugilistica Italiana, costretta a riconoscere a Mario D'Agata la licenza di pugile professionista.
Accade il 14 ottobre 1950: risolto il problema di come avvertire Mariolino alla fine di ogni ripresa. Al suono del gong, l'arbitro gli darà un colpetto sulla spalla.
Il debutto a torso nudo a ventiquattro anni. I primi combattimenti, le sconfitte per mano di Romolo Re, nome d'arte Kid Arcelli, e contro Roberto Denti, questa per squalifica. L'avversario colpito fuori tempo, dopo il suono della campana non avvertito da D'Agata, ovviamente.
La grande svolta in occasione della venuta ad Arezzo del manager Libero Cecchi. Toscano pure lui, ma operativo a Milano, l'ufficio in via Masaccio. La trasferta è motivata dall'idea di mettere sotto contratto tale Nocentini, un interessante prospetto con buoni trascorsi da dilettante.
“Nocentini ha limiti”, obietta Bruno Giuliattini, eccellente maestro di boxe, cuore e motore della gloriosa Accaedemia Pugilistica Aretina, l'allenatore del mutino. “Prendi Mario D'Agata, ha doti incredibili; scarsa frequenza cardiaca permette ritmi insostenibili per gli avversari; sono pronto a scommettere sul suo futuro”.
Perplesso Cecchi. Ha assistito ad alcuni combattimenti di D'Agata, decisamente non positive impressione e valutazione. In nome del più popolare Nocentini, alla fine accoglie il consiglio del maestro Giuliattini, che rimarrà al fianco di Mariolino lungo l'intero percorso professionale del “piccolo Marciano”. Ad una condizione però: il giovane va testato a Milano, un paio di combattimenti poi si capirà dove andare a parare. Gaetano Annaloro, esperto picchiatore tunisino, la prova del fuoco: superata con disinvoltura, in scioltezza. Il piccolo grande mutino può urlare le ambizioni personali. Italia, ascoltalo. Giuliattini, occhio lungo, ha visto giusto.
Cecchi è manager accreditato, possiede spirito d'iniziativa, è audace il giusto, e può contare su aderenze importanti. Quella decisiva ha un nome e un cognome: Giovanni Borghi, industriale e mecenate proprietario dell'Ignis, frigoriferi ed elettrodomestici. Il tipico self made man. Si è fatto effettivamente da solo partendo dall'invenzione di un semplice ferro da stiro. Il commenda sostiene il basket e il pugilato. Anche D'Agata può godere delle attrezzature e della pace di Comerio, ameno sito in provincia di Varese. Il grande Duilio Loi è tra i frequentatori più assidui. Nasce e si sviluppa una fraterna amicizia.
Mariolino dalle molte vite. Il “piccolo Marciano” è chiamato sistematicamente a fare a pugni con le contrarietà, inseguito da una sfortuna nera che più nera non si può, qua e là. Inciampa, cade, e si rialza. Il pugile è una macchina da combattimento, uno sputapugni ossessivo e letale per gli avversari. Quando si mette in moto non c'è oppositore in grado di frenarne l'avanzata. Micidiali le botte al corpo del piccolo gigante di cinquantaquattro chili, uppercut e ganci come se piovessero, quando le riprese del combattimento cominciano a essere più di cinque.
La cintura di campione d'Italia dei pesi gallo è il primo titolo conquistato. L'occasione per andare contro, accadrà tante volte durante la carriera professionale. Gianni Zuddas, cagliaritano, gode dei favori del pronostico. Medaglia d'argento ai Giochi Olimpici di Londra 1948 sembra destinato a un strepitoso percorso anche da professionista. E poi, chi sarà mai questo Mario D'Agata, per di più sordomuto e con un paio di pecche nel palmarès?

Arezzo, teatro Politeama, 26 settembre 1963, Mariolino aggredisce il titolare, la pressa, lo tiene costantemente e ossessivamente sotto tiro, colpisce duro e replica le combinazioni. Il popolare Zuddas deve affidarsi alle scorrettezze. Alla nona l'arbitro dice che è troppo e lo manda via: squalificato. Impazzisce Arezzo, le strade della città invase dal popolo festante. Mai vista prima una roba di questo stesso genere. Puro innocente delirio.
La notorietà, il successo, l'amore. Però senza mai uscire dal proprio seminato. Pugile serio, atleta irreprensibile, anche l'uomo è inattaccabile. La promessa di matrimonio viene mutuata in nozze. Mariolino sposa Luana Bacci, figlia di un mobiliere. Sì, è sordomuta anche lei. Lo sposalizio viene celebrato il 10 dicembre a Firenze, Basilica di Sana Maria Novella. Viva gli sposi: il grido gioioso sale dalle ugole di centinaia e centinaia di persone accorse a festeggiare Luana e Mario. Si vogliono e si vorranno un bene dell'anima per tutta la vita. Emozionano e commuovono l'Italia le lettere che moglie e marito si scambiano quando sono lontani. E non possono dirsi quanto si vogliono bene con l'unico linguaggio fruibile. Quello dei segni. Riempiono il loro amore appunto con gli scritti diventati nel tempo brani di storia.
Mario e Luana lontani, separati da migliaia di chilometri, quando lui è impegnato in combattimenti all'estero. In Australia riempie di botte il quotato Roy Wills, al secolo Bobby Sinn, maltese ostico e complicato, mestierante aggrappato a tutti i trucchi del mestiere. Mariolino rulla il tipo alla sua maniera sul ring di Melbourne.
Messo sotto Sinn, concede il bis contro lo statunitense Peacock, detto il cobra. “Mario D'Agata è un pugile tremendo, diventerà campione del mondo”, sentenzia un grandissimo del ring, l'australiano Jommy Carruthers, precoce invitto campione del mondo. Un sensazionale picchiatore.
Mariolino stella mondiale? Certo che sì: la conferma arriva da Manila, Filippine. Laggiù in Oriente doveva esserci anche Luana, per un'appendice al viaggio di nozze. La rinuncia dolorosa pochi giorni prima della partenza. Mario, a Manila, è assistito dall'inseparabile prezioso Giuliattini e da Libero Cecchi, il manager. Little Cezar l'avversario, molto quotato e ben situato nelle classifiche mondiali. Un pretendente al titolo, dovendo considerare che combatte in casa.
In Italia è inverno pieno, a Manila si scoppia di caldo e di umidità. Bene: diciottomila filippini delusi e avviliti indirizzano mitragliate di applausi al pugile italiano autore di una prestazione strepitosa. Dieci riprese col piede a tavoletta, l'ignaro Little Cezar non poteva e non sapeva che in giro esistesse una macchina da pugni di siffatta incontrastabile micidiale continuità.
La corona mondiale è a portata di pugni. Quella della National Boxing Association è vacante, non ha un padrone. L'hanno tolta a Robert Cohen, che non l'ha difesa nei termini. Il pretendente designato è Raul Macias, un messicano, soprannome el raton, il topo. Lo scontro per il titolo già ha una data e una sede: 9 marzo 1955 a Los Angeles, California, per l'organizzazione del famoso George Parnassus, dalle chiare origini greche. Il primo al mondo a presentare un meeting pugilistico con tre titoli mondiali in palio in un'unica serata.
Macias e l'incontro per il titolo di campione del mondo: troppo bello per essere vero. Infatti, l'omino d'acciaio non affronterà mai il messicano. Il motivo della rinuncia non volontaria diventa immediatamente reperibile nei titoli a nove dei quotidiani: “Hanno sparato a Maria D'Agata”. Proprio così, ma chi è stato a colpirlo al petto a bruciapelo con una fucilata, e per quale motivo?
Giovanni Petitto, catanese, il mancato omicida, per fortuna. La lavanderia-tintoria La Moderna il luogo della follia dell'imprenditore che non ha onorato alla scadenza una cambiale per incauto acquisto di macchinari. Ha ricevuto un'ingiunzione di pagamento di due milioni di lire. Indispettito Mario D'Agata, suo socio nella gestione dell'attività. Tipico combattente spericolato della vita, Petillo è reduce da plurimi fallimenti. É un uomo evidentemente disperato, Un disadattato.
Un colpo di pistola a vuoto prima della fucilata con l'arma presa nervosamente, in tutta fretta, dal retrobottega. Centrato al petto dal colpo sparato da breve distanza, Mario ferito crolla sul pavimento in una pozza di sangue. Fugge lo sparatore mentre la sorella del campione si adopera nella richiesta di un'ambulanza. Il trasporto in ospedale avviene con rapidità assoluta. La prognosi è di quindici giorni.
Il professore Raffaele Papergli esegue l'intervento chirurgico al polmone sinistro. L'esito è positivo, impietosa però la sentenza che non presta il fianco a dubbi. “Il paziente guarirà completamente in tre mesi. Si esclude comunque il suo ritorno alla pratica pugilistica”. Traduzione: la carriera di Mario D'Agata termina qui. Si ritenga un ex pugile.
Fine della storia? Proprio no. Intanto fenomeno fisico dalla volontà incrollabile, Mariolino nostro smentisce i medici e la scienza. Dopo dodici settimane da quella fucilata che avrebbe potuto ammazzarlo, lo ritroviamo sul ring. Le mami fasciate dalle bende nei guantoni da combattimento, sei once il peso di ognuno. Condannato per mancato omicidio, il feritore è in galera. Uomo generoso, Mario va a fargli visita e il gesto ha valenza quasi di perdono, certificato da una frase. Questa: “Non nutro rancore verso Petitto, già paga con la prigione l'errore commesso”.
Impensabile per i medici, il ritorno al pugilato avviene il 25 maggio a Torino. Il francese giramondo Arthur Emboulè sconfitto all'ottava ripresa. Il suo secondo lo toglie dagli impicci con il lancio dell'asciugamano di spugna. Il resto è il titolo europeo riconquistato nella sfida tutta italiana con il marchigiano Scarponi, amico e sparring, contro il quale mette poi il punto con una sconfitta alla carriera di boxeur professionista e di campione costretto a impegnarsi periodicamente contro eventi personali pesantemente contrari.
A Parigi, sul ring del Velodrome d'Hiver, l'amarezza più profonda. Quello che gli resterà per sempre qui, alla bocca dello stomaco, senza possibilità alcuna di mandarlo giù il boccone amarissimo. Primo aprile 1957, il classico pesce d'aprile. Mariolino deve difendere il titolo dall'attacco di un algerino nato a Costantine, di nazionalità francese, Alphonse Halimi. Una delle tre H del famoso manager corso Philippe Philippi. Charles Humez e Cherif Hamia le altre due.
Halimi è giovane, possiede grande tecnica e pugni pesanti. Le credenziali sono supportate dal nomignolo, Piccolo terrore. Parte in maniera acconcia, come si deve, il francese. Lavora bene e meglio nelle prime due riprese, sostenuto dalla frase tecnica di alta qualità. D'Agata è il solito, lento a carburare. Crescerà di ritmo e di tono nei round che verranno.
La beffa si consuma alla terza ripresa. Un tizzone ardente viene giù dal padellone delle luci che illumina il ring. Colpisce D'Agata alla spalla, ma danni seri non procura. Risulta immediatamente danneggiato quella sorta di lampadario. Il danno impone la sospensione dell'incontro. Il black-out, non breve, è lungo diciotto minuti. I due contendenti rietrano negli spogliatoio. E noi italiani subito consapevoli del danno che ne conseguirà per il nostro campione del mondo. D'Agata dovrà ricominciare daccapo, la quarta ripresa come l'inizio di un nuovo match.
Il black-out improvviso provocato ad arte, per chi fa del sospetto e della malignità la propria cultura, è alla base della sconfitta dell'aretino. Ma c'è ancora di più: Mario ha il terrore del buio. Un grande pena per lui quei diciotto minuti nell'oscurità dello spogliatoio, solo con il maestro Giuliattini. Una cosa è chiara, a questo punto: D'Agata ha già perso combattimento e titolo. L'imboscata è riuscita.
Favorito dal black-out, Halimi vince con largo margine e pieno merito. Leale fino all'eccesso, il campione spodestato si complimenta. Ma chiede la rivincita e la pretende in virtù del black-out sofferto, sicuro di avere la meglio la prossima volta. La rivincita non l'avrà mai. Si inventerà mille scuse il francese, definito da alcuni giornali un uomo in fuga e in precarie condizioni fisiche a ore dal breve combattimento. France Dimanche titola “La notte di terrore del campione”. Mario fresco come una rosa; il bell'Alphonse con l'affanno, il viso stravolto, gli occhi un po' così. Eppure il vincitore è lui, ha picchiato più e meglio di D'Agata.
Mancata rivincita e mancato pagamento di una penale relativa al danno subito incrinano il rapporto tra Mariolino e Libero Cecchi. Il divorzio è datato 1961. Steve Klaus, il mago ungaro-statunitense-italiano, un pozzo di sicenza pugilistica, è il nuovo manager da qui alla fine.
Già, la fine. Inevitabile che ci sia, per tutti. Mario abbandona il ring per sempre, si dà alla pittura e soprattutto alla cura della famiglia. La moglie Luana e l'unica figlia Annamaria, lei dotata da madre natura dell'uso della parola e dell'udito. “Mamma e babbo non hanno agito mai perché io mi adattassi a loro, erano loro ad addattarsi a me”.
I D'Agata si trasferiscono a Firenze. Dove l'indimenticabile indimenticato “piccolo Marciano” campione d'Italia, d'Europa e del mondo, passa a miglior vita nel 2009. Tolto doverosamente il cappello, penso si possa essere soddisfatti del tanto tantissimo che ci ha dato e dell'eredità pugilistica che ha lasciato a noi appassionati. La figlia Annamaria collaboratrice del Comitato Toscano della Fpi, il genero Antonio Malvolti ufficiale di gara con la qualifica di commissario di riunione, la nipote Carlotta arbitro e giudice in carriera. Proprio vero la boxe è un imparabile incontrastabile virus.
Così è molto bello, anche se forse nonno Mario avrebbe storto il muso per la nipote arbitro di pugilato. Una donna sul ring lui non ce la vedeva proprio. É stato un uomo e un pugile d'altri tempi. I tempi di Mario D'Agata, gente, e di veri campioni. In Italia non uno, tanti.

 

I protagonisti della nostra storia. Enrico Venturi e il mondiale negato...

Venturi1

 

di Vittorio Parisi

Era il 26 gennaio 1930, domenica, al Padiglione 3 della Fiera Campionaria di Milano quando un Enrico Venturi non ancora ventenne batteva ai punti in 10 riprese Cleto Locatelli.  Nella stessa riunione suo fratello maggiore Vittorio, peso welter, aveva conquistato il titolo italiano imponendosi su un Mario Bosisio stremato dagli sforzi fatti per rientrare nel peso di una categoria non più sua.

Un bello smacco per i milanesi nella allora acerrima rivalità pugilistica con Roma, da dove venivano i Venturi. I tifosi di casa sfogarono la loro frustrazione prendendosela col povero Bosisio, un grandissimo che comunque era soggetto a serate storte, il quale aveva alzato il braccio in segno di resa al 13° round. Locatelli dal canto suo era stato messo sotto dall’inizio tambureggiante di “Richetto” e non era riuscito a recuperare tutto lo svantaggio.

Il 29 ottobre a Forlì la quarta edizione della Hall of Fame Italia. I premiati...

Copertina HOF

 

Quarta edizione della Hall of Fame del Pugilato Italiano. 
Torniamo nella Casa del Boxe per dare il giusto riconoscimento ai personaggi che hanno realizzato le imprese più belle del nostro sport. È un’idea che boxeringweb.net è riuscito a concretizzare a partire dal 2018 (saltando solo l'anno 2020, a causa della pandemia).

Eccoci al 2022. Tutto è pronto per una nuova serata di gala.

Torniamo con un sei campioni che hanno impreziosito la nostra storia, li onoreremo in una cerimonia che sta diventato tradizione e di cui siamo sinceramente orgogliosi.

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