“Ride delle cicatrici chi non ha mai avuto una ferita”

(William Shakespeare)

E un giorno un ragazzo (o una ragazza...è la stessa cosa) annunciò ai genitori di volersi dedicare al pugilato. Gli frullava da tempo per la testa il desiderio di mettersi alla prova, di passare dalla folta schiera dei semplici amatori a quella degli agonisti. Non aveva grandi sogni né sconfinate ambizioni. Però la "sirena" di tentare l'avventura lo richiamava ogni giorno di più.

Senza porsi limiti. Avrebbe scavalcato le corde del ring forse una sola volta o forse altre cento. Non lo sapeva.

Ma sfidare se stesso e un avversario vero gli pareva una grande occasione, un esame importante per capire di che pasta era fatto, di come sarebbe stato capace di sopportare le tante sfide vinte o perse che la vita gli avrebbe riservato.

I genitori, felici sino a quel momento per il fisico e per la disciplina che la boxe intesa come puro esercizio atletico gli aveva forgiato, rimasero di sasso. Non si aspettavano un simile salto in avanti...

Gli posero allora dinanzi tutte le argomentazioni classiche, talvolta fantasiose e talvolta motivate, che sconsigliavano la sua scelta. Perché il pugilato molti lo amano, ma soprattutto quando lo vedono fare da altri. E in particolare, dai figli degli altri.

Il ragazzo oppose le altrettanto classiche argomentazioni in difesa della boxe. Le visite mediche, la serietà degli allenamenti, il gran cuore e l'esperienza dell'allenatore, le regole, l'arbitro, ecc...

Si era creata comunque una situazione di stallo comune a quasi tutti i ragazzi che hanno dovuto convincere i genitori a sopportare, se non a sostenere, la loro scelta. Mille ragioni stavano dalla parte di mamma e papà. Altre mille dalla parte dell'aspirante pugile.

A cui ne andava però aggiunta una decisiva: la vita era la sua ed era ormai abbastanza grande per dire l'ultima parola.

A questa punto la mamma prese il tablet e cominciò a muovere rapidamente le dita sulla tastiera mentre il padre, perplesso e ignaro della moderna tecnologia, e il figlio sospettoso l'osservavano in silenzio. Ad un certo punto depose il tablet sul tavolo e indicandolo intimò al figlio e al marito di leggere ciò che aveva recuperato da post letti (con orrore!) qualche giorno prima...

Del glorioso pugilato, dello sport-non solo sport, della sala d'ingresso a valori etici, sociali, culturali e formativi non c'era nulla. C'erano invece foto scelte con cura per la loro cruenta drammaticità, frasi infarcite di parole come "massacro", "botte da orbi", "picconate" e "annientamenti. Esse fungevano da accompagnamento alle notizie pugilistiche riportate con la cieca determinazione di offrire di una disciplina sportiva quanto di peggio si potrebbe, in termini di immagine e di credibilità.

Il padre ammutolì. La mamma indignata fulminò il figlio con lo sguardo e questi, in evidente difficoltà e incapace di improvvisare una difesa, scosse la testa...

Ma il ragazzo s'alzò e riconfermò con fermezza la propria volontà di battersi tra le sedici corde.

"Non é questo il pugilato. Ve lo posso assicurare...Non date ascolto a quello che leggete sui social. La boxe é dura, difficile ma meravigliosa. E i pugili si rispettano e talvolta si vogliono pure bene. Queste cose le può scrivere chiunque, purtroppo. Non date ascolto...".

Come andrà a finire la sua storia pugilistica?

Chi lo sa...

C'é solo da augurarsi che egli abbia ragione. Che la boxe sia altro...Questa sì che sarebbe la sua prima e grande vittoria!

O la boxe, almeno da noi, rischierebbe l'estinzione.