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Bordo Ring

L’influenza dei social rischia di trasformare la boxe in videogame

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Non più passione, ma emozione esasperata. Meglio se concentrata in uno spazio di tempo ristretto...

 

 

Esiste un solo bene, la conoscenza,
e un solo male, l’ignoranza.
(Socrate)

Lo sport si sta trasformando in un gigantesco videogame.
Recenti sondaggi dicono che i giovani preferiscono gli eSport (i videogiochi a livello competitivo) allo sport reale. Aggiungono, i sondaggi, che si è notevolmente ridotto lo spazio di tempo in cui la fascia di età tra i 13 e 24 anni è disposta a concentrarsi su un unico evento. Preferiscono una selezione ridotta di momenti chiave, all’intero svolgersi dell’avvenimento. Quindici minuti al massimo, non di più.
Racconta un giovane tecnico di Football Americano che quando tiene le riunioni tecniche è costretto a fare una pausa ogni mezz’ora, per consentire ai giocatori di controllare messaggi/sms e varie sui loro cellulari.
Il mondo cambia, lo sport si adatta. La boxe non sfugge alla regola.
Oggi non si chiede più di scatenare la passione, ma la capacità di generare emozioni forti, direi esasperate. Preferibilmente concentrare in uno spazio temporale ristretto.
L’evento deve essere sempre e comunque eccezionale.
La proposta commerciale, continuare a parlare di sport senza affiancare la parola spettacolo vorrebbe dire rimanere ancorati a un passato che non esiste più, deve essere esaltante.
Viviamo nell’era dei social media. Si sono sostituiti ai tradizionali produttori di cultura (4,2 miliardi di persone nel mondo ne sono fruitori). Libri, cinema e tv hanno ceduto il passo a Facebook, YouTube, Instagram, Twitter, Tik Tok e via cliccando. In alcuni casi i social hanno preso il posto della famiglia o della scuola. Sono loro i dispensatori di emozioni. Ed è a queste realtà che lo sport si deve aggrappare se vuole recuperare terreno tra i giovani.
La realtà esiste nella mente umana e non altrove, diceva George Orwell.
Ognuno inventa la sua, quella in cui gli piacerebbe vivere. Non si cura di ciò che gli occhi vedono, o le orecchie sentono. È convinto che il mondo sia come appare nella sua testa, perché è l’unico in cui è disposto a vivere. I fatti sono elementi che intralciano la realtà immaginaria. Non sono difficili da interpretare, ma sono impossibili da accettare. Meglio creare un contesto adatto al proprio io e muoversi all’interno di questo.
Nel mondo è calato l’interesse verso lo sport, è diminuito il numero dei tifosi. La nicchia del popolo della boxe non se ne è accorta.
Eppure i numeri dovrebbero avere aperto gli occhi anche ai meno propensi alle novità. Il pugilato che conta è solo quello a pagamento, a grandissimi livelli quello in pay per view. E dice che, esclusi quattro eventi (tutti legati a Floyd Mayweather), negli ultimi venti anni nessuno è riuscito a superare la quota di due milioni di contatti. Ci si rivolge dunque a un pubblico ristretto, disposto a spendere da 50 a 100 dollari per vedere un combattimento (il pacchetto che si compra offre l’intero programma della serata, ma chi paga è quasi sempre interessato all’incontro principale e poco più).
Promozione dell’avvenimento, lancio pubblicitario, scelta dei protagonisti. I pugili di richiamo non devono solo essere bravi. Terence Crawford vende decisamente poco, il doppio confronto Kovalev vs Ward qualche anno fa ha deluso tutti, in tempi recenti nessuno ha portato montagne di denaro all’organizzazione e ai pugili.
I protagonisti devono essere bravi, devono dividere, affascinare i tifosi spinti da sentimenti contrastanti. Odio o amore, sono gli elementi che gli interpreti devono essere in grado di generare. Devono vendere un prodotto, suscitando emozioni nel cuore di chi deve comprare.
Difficile trovare queste combinazioni nel pugilato contemporaneo, forse solo Canelo Alvarez, pesi massimi a parte, ci riesce. Ecco perché si tirano fuori dal passato vecchi, nel senso pieno del termine, campioni. Mike Tyson in esibizione con Roy Jones jr ha venduto 1,4 milioni di contatti in pay per view a 50 dollari per gli Stati Uniti (in Italia il prezzo era 9.99 euro, i dati sull’audience non sono stati resi pubblici). Visto il successo, si sono presentati all’incasso Evander Holyfield, Julio Cesar Chavez, Oscar De La Hoya, Erik Morales e altri ancora. Dovremmo vederli, prossimamente, sui ring americani.
Non siamo più in grado di creare miti, li prendiamo belli e fatti dal passato.
Ora siamo tutti in attesa di Tyson Fury vs Anthony Joshua che, dicono, potrebbe portare un movimento di denaro vicino a 220 milioni di sterline.
E questa è la cima della montagna. Sotto c’è il resto dell’universo boxe.
Borse infinitamente più basse per chi non è nella Top 10 dell’interesse mondiale.
Cifre tra 20.000/30.000 dollari per gli sfidanti nelle categorie più piccole; 50.000/100.000 per quelle che smuovono maggiore movimento di denaro; 100.000/200.000 per i campioni delle più pesanti, 30.000/50.000 per quelle meno.
Questo è il pugilato di oggi. Ha bisogno di spettacolarizzare, più di altri sport, l’evento. Ha necessità di campioni che eccitino lo spettatore, producano in lui la voglia di applaudirlo o la speranza di vederlo sconfitto. Servono protagonisti che sappiano recitare sul ring e fuori dal ring. Lo show si nutre di questo e chiede molto ai suoi attori.
Ho sempre più la sensazione che la boxe si sia già trasformata in un eSport. Un gioco in cui siano sempre gli stessi a muovere i comandi e si sia allargata a dismisura la forbice dei compensi tra creatori dell’evento e protagonisti dello stesso. Alla passione e alla realtà dei livelli tecnici è lasciato uno spazio minimo.
Si sta velocemente correndo verso un pugilato fatto di competitività estrema, soluzioni veloci, grande enfasi prima, durante e dopo il combattimento.
La mia speranza è che qualcosa dei vecchi valori rimanga. È una speranza che trova conforto nella stessa essenza di questo sport. Il pugilato è fatto da uomini (e donne) per uomini (e donne). Deve dare emozioni, creare un collegamento tra chi è sul ring e chi siede in platea o davanti a una tv. È uno sport che ha alla base sacrifici, sofferenza fisica e morale, dolore, rispetto. E tutto questo non puoi trovarlo in un videogioco. Se così non fosse, dovremmo ammettere di esserci trasformati in un mondo di robot.
Per salvarci da questa catastrofe dobbiamo recuperare la dignità del pensiero. Ritrovare quella voglia di studiare, di informarci, di conoscere. Rispolverare la curiosità, il bisogno di sapere. L’ignoranza è il grande nemico. Perché se ignori in quale mondo tu stia vivendo, non ne vedrai mai le storture. Esaltarsi per niente, non distinguere il diamante dall’imitazione, vivere in una realtà che non esiste, non aiuta a uscire fuori dalla zona pericolosa. Ci impedisce di vedere la luce della realtà. Inventarcene una solo nostra non è la soluzione.
Un mio amico dice che la speranza di una vittoria della conoscenza sulla gestione dello spettacolo appartiene a un vecchio modo di pensare. Aggiunge che una mutazione antropologica ha modificato i parametri. Oggi l’unica salvezza passa attraverso il recupero delle emozioni. Che può essere indotto o casuale, ma che in ogni caso (su questo siamo quasi d’accordo) può essere prodotto solo dai social. I cellulari, gli iPad, i computer sono gli attuali mezzi di propagazione della realtà. In alcuni casi si confondono con essa, al punto che solo quello che appare sui social attraverso il cellulare o l’iPad si pensa sia reale.
Non sono un nostalgico che crede solo nel passato. Ma è innegabile che alla mia età io possa trovare qualche difficoltà ad accettare questa mutazione. Ho difficoltà per quel che riguarda la navigazione nella realtà, ma anche per quel che concerne la concezione dello sport, il pugilato nello specifico. I campioni che hanno suscitato in me tante emozioni oggi sono difficili da trovare. E allora dico, avanti con tecnologia, nuove tecniche di management, rinnovo della gestione dell’atleta e del personaggio. Ma proviamo a non perdere di vista l’essenza della disciplina.
La tecnologia ha riportato sul set James Dean, morto più di sessant’anni fa. Ma quell’ologramma, se mai lo vedrò, genererà in me solo tristezza, non certo emozione. Non mi piace l’idea che tecnologia e nuove tecniche di mercato trasformino anche il pugilato in una realtà virtuale, più di quello che oggi è, fino a farlo diventare un eSport.
Ma credo proprio che sia una battaglia contro i mulini a vento.

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