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La Boxe nella storia

Storia di Felix Trinidad, il killer con la faccia d'angelo

Felix

Esordio a 17 anni, a 20 aveva già conquistato il mondiale. Ha vinto in tre diverse categorie di peso….

Tito era un ragazzo che amava divertirsi e quando vedeva gli amici entrare nel grande capannone capiva che era arrivato il momento di giocare. Il locale un tempo era un deposito di vecchie gomme da camion, poi il pàpà lo aveva ripulito, ci aveva messo dentro una specie di ring, qualche attrezzo e l’aveva fatto diventare una sala da allenamento.

Quell’ex magazzino era nei sobborghi di San Juan de Portorico e Trinidad sr lo teneva su strappando qualcosa al suo modesto salario di operaio in un’azienda che costruiva installazioni per piscine.

Felix Trinidad senior, detto Popo, viveva a Cupey con la moglie Irma Doris Garcia e i loro sei figli: tre ragazze e altrettanti ragazzi, uno dei quali aveva deciso di seguirne le orme. Da giovane Popo Trinidad era stato campione nazionale dei piuma. Lo chiamavano El Diablito.

padre

Felix Trinidad junior detto Tito era giovane e forte. Aveva una faccia d’angelo e una grande personalità. Era entrato per la prima volta in quella specie di palestra quando aveva solo otto anni. Da quel momento le cose erano andate decisamente in fretta. Era passato professionista a 17. A 20 era campione del mondo, un fenomeno del ring a cui Portorico voleva bene come a nessun altro.

Quando chiamava a raccolta la gente per annunciare un match, non c’erano mai meno di cinquemila persone ad applaudirlo. Quando aveva conquistato il mondiale contro Maurice Blocker, in centomila avevano invaso le strade per festeggiare. Quando aveva battuto Fernando Vargas, l’invasione di San Juan era stata totale.

La Titomania era una febbre contagiosa. Ne era stata colpita anche Sharon Santiago. La bella bambina che abitava a pochi passi dalla casa dei Trinidad era cresciuta. Ora era una splendida donna e amava, ricambiata, il campione. Era diventata sua moglie, avevano avuto quattro figli: Ashley, Leysha, Alayah, Larisha. Anche la quinta, avuta da un’altra relazione di Tito, era una bambina: Nicole.

trionfo

Felix jr aveva grande talento, più qualche piccolo peccato da scontare. Aveva una mascella che non era certo di granito. L’avrebbero messo giù Vargas, Mayorga, Reid, Stephens, Campas, Carr e a inizio carriera Alberto de las Mercedes Cortes. In ogni occasione però, subìto l’atterramento, si era rialzato e aveva spedito ko i rivali.

Un gancio sinistro atomico e un destro costruito in palestra capace di provocare sfracelli erano le armi che l’avevano reso grande.

Aveva conquistato il titolo welter Ibf il 19 giugno del 1993. Lo aveva difeso per 15 volte, vincendo in 13 occasioni prima del limite.

Poi il 18 settembre del 1999 era arrivato Oscar De La Hoya.

Tito era il campione, imbattuto dopo 35 match, con 30 successi conquistati per ko. Il Golden Boy era il detentore della corona del Wbc, non aveva mai perso in 31 incontri, 26 volte aveva chiuso con un ko. Tanto per non esagerare, gli organizzatori avevano definito l’evento “Il match del Millennio”.

Per otto round De La Hoya aveva dettato i tempi, colpito d’incontro, portato attacchi che erano sistematicamente finiti a segno. Solo una leggera pausa per riprendere fiato nella quarta e quinta ripresa. Poi, nel primo minuto della nona, il californiano aveva illuso i tifosi che avrebbe addirittura potuto chiudere la sfida prima del limite. Ma era stato quello il suo ultimo attacco. Da quel momento in poi aveva deciso di pedalare all’indietro, boxando con l’unico scopo di limitare i danni, concedendo al rivale le ultime quattro riprese.

DLH

Era talmente sicuro di avere già la vittoria in tasca che aveva ascoltato i consigli dell’angolo senza protestare.

Non rischiare, hai vinto”.

I giudici avevano espresso un verdetto di stretta misura: Jerry Roth 115-113, Bob Logist 115-114, Glen Hamada 114-114. Aveva vinto, per majority decision, Felix Trinidad jr.

Era invece scivolato via, senza trascinarsi dietro il minimo dubbio, un altro successo importante conquistato contro un rivale che veniva dal suo stesso Paese. Una sfida per l’orgoglio nazionale. Erano infatti solo 13 i chilometri che dividevano Bayamon da Cupey Alto. E a Bayamon era nato il nemico di quella notte, Hector Macho Camacho.

Trinidad aveva dominato un match durante il quale era sembrato che l’unica preoccupazione di Camacho fosse quella di restare in piedi.

Campione del mondo in tre diverse categorie (welter, superwelter e medi), ogni volta che saliva di peso riusciva a sfruttare le armi che lo avevano portato così in alto: potenza e carisma. Ipnotizzava i rivali, poi li travolgeva ballando una danza di morte sul ring. I suoi colpi erano veloci, pesanti. Era uno spettacolo affascinante vederlo combattere. Felix aveva fluidità di movimenti, ritmo alto, solidità di pugno.

Ricco e famoso, Tito andava avanti e sembrava non dovesse mai incontrare qualcuno capace di fermarlo.

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L’uomo cattivo aveva maschera e faccia per sostenere il ruolo. Lo chiamavano “il boia” e così vestito si presentava sul ring.

Bernard Hopkins era pronto a tutto quel 29 settembre del 2001 in un match che si combatteva all’interno del Madison Square Garden di New York. Sul piatto c’erano i titoli Wbc e Ibf dei medi e il supercampionato mondiale della Wba.

Hopkins il match lo vinceva, anzi lo dominava, imponendosi per kot al dodicesimo round.

Avrebbe potuto chiudersi lì la carriera del grande pugile di Portorico, cinque volte campione del mondo, detentore del titolo in tre diverse categorie. Un record di 40 vittorie e una sconfitta. La magia di un talento infinito l’aveva aiutato a battere campioni come Blocker, Camacho, Campas, Carr, Whitaker, Pendleton, De La Hoya, Vargas, Joppy.

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Poteva finirla lì e invece era voluto andare avanti.

Aveva sconfitto Cherifi. Aveva poi battuto, in una battaglia selvaggia ed esaltante, Ricardo Mayorga.

Due successi per k.o. l’avevano convinto a osare ancora di più.

Il 14 maggio 2005 aveva incontrato Ronald Wright in una eliminatoria per il titolo Wbc dei medi. Ne era venuta fuori una sconfitta netta, inappellabile.

Un’ulteriore prova che era arrivato il tempo di scendere dal ring. Le parole di Papa Trinidad avevano aiutato Tito a prendere la decisione.

Ma era stata una falsa promessa.

Il 19 gennaio del 2008 perdeva nettamente ai punti contro Roy Jones jr.

Si chiudeva, stavolta in modo definitivo, la carriera di Felix Trinidad jr. detto Tito.

Ora vive a Portorico, dove ha dieci galli da combattimento, attività considerata legale nel suo Paese. Alleva cavalli, gioca a basket o a golf. Cura una fondazione che aiuta i bambini malati di Aids. Fa lunghe passeggiate sulla spiaggia, ma senza mai entrare nel mare. Ha paura

dell’acqua alta.

Vive in una casa lussuosa, assieme alla moglie e alle bambine. All’ultimo piano ha costruito una sorta di museo personale. Foto, quadri, trofei. Ogni tanto sale le scale, rimette in fila i trofei e sorride.

Essere una leggenda è sempre piacevole.

(Estratto da “I pugni degli eroi” di Franco Esposito e Dario Torromeo, edizioni Absolutely Free)

http://dartortorromeo.com/

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