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Bordo Ring

I cinquant'anni di Mike Tyson, una vita piena di pugni

BEIJING, CHINA - MAY 24:  Former Heavy Weight Champion Boxer Mike Tyson  attends the Great Wall Weigh-in of IBF World Boxing Championship Bout at Mutianyu on May 24, 2016 in Beijing, China.  (Photo by Lintao Zhang/Getty Images)

Mike Tyson compie cinquant’anni.

È stato il pugile più popolare del mondo dopo Muhammad Ali. La televisione lo ha aiutato a entrare in milioni di case ancora prima di diventare il più giovane campione nella storia dei pesi massimi.

Una macchina da pugni. Dotato di grande abilità tecnica, nei giorni migliori era l’interprete di una difesa esemplare e di una strategia d’attacco che limitava al minimo il numero dei colpi subiti.

È stato un ottimo pugile, anche se a mio avviso non è nella Top Ten dei massimi di sempre (Joe Louis, Rocky Marciano, Muhammad Ali, Jack Johnson, Jack Dempsey, Gene Tunney, George Foreman, Joe Frazier, Sonny Liston e Larry Holmes gli sono superiori). Ha segnato un’epoca come pochissimi sportivi sono riusciti a fare.
Dopo il ritiro, è entrato nello show business. Abile attore, intrattenitore teatrale, improbabile cantante, eccellente interprete di divertenti parodie, protagonista addirittura di una serie di fumetti.

Dopo la morte di Ali ha lasciato il commento che più di altri ha colpito la gente.

Dio è venuto a prendersi il suo campione, lunga vita al più grande”.

Mi avevano detto che era in miseria, poi ho scoperto che ha venduto la sua villa per 1,5 milioni di dollari. Ci ha messo su un altro milione e ne ha acquistata un’altra. Tanto male non se la deve passare.

Presto faranno un film sulla sua vita. Regista Martin Scorsese.

Anche oggi ha una vita convulsa.

Questo è il riassunto delle puntate precedenti.

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Indianapolis, Indiana, marzo 1995.

SONO le 5 di mattina. Quattro gradi sotto zero, il gelo mi entra nelle ossa. Il taxi percorre quindici miglia senza mai cambiare direzione, segue la Washington Street che, appena fuori città, diventa Interstate 40. Fabbriche, desolazione, campi di basket, una chiesa Battista, la piatta provincia americana. Superiamo l’Aeroporto Internazionale, ancora cinque miglia e giriamo in Morgan Street. Davanti a me il Plainfield Youth Center, carcere di media sicurezza.

Sono le 5 del mattino e un agente sta aprendo la cella del detenuto 922335: Michael Gerald Tyson, ex campione del mondo dei pesi massimi, in carcere per stupro.

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Brooklyn, New York, fine giugno 1966.

LORNA Smith, 36 anni, spende uno dei rari sorrisi della vita. Accanto a lei, per l’ultima volta prima di sparire c’è Jimmy Kirkpatrick. È il papà di quel bambino di quattro chili, appena nato al Cumberland Hospital di Fort Greene, che urla nel letto. Lo chiameranno Michael Gerald, il cognome lo erediterà da Percel Tyson: l’uomo da cui Lorna ha divorziato alcuni anni prima. L’infanzia di Mike è a Brownsville, in un casermone a sei piani con i mattoni rossi; con la mamma, spesso vittima dell’alcool, ma quasi sempre capace di tornare a casa con qualcosa da mangiare; con la sorella Denise e con Rodney, il fratello. Laggiù, negli anni Trenta, comandava l’Anonima Assassini. Il tempo ha cambiato davvero poco. I primi ad arrivare sono stati i contadini, poi gli ebrei, quindi gli italiani e gli esuli dell’Est europeo. Tra le due guerre mondiali si sono aggiunti anche neri e ispanici. Oggi i padroni sono gli spacciatori. Case del crack ovunque, ubriachi e drogati sugli scalini. Macchie di sangue alle pareti. Gente in fila per comprare la droga da bambini che maneggiano pistole automatiche. Sirene della polizia, spari di giorno e di notte.

Sono stato in quell’inferno e mi è sembrato di entrare in un antro delle streghe. Vecchi ricordi da bambino mi tornavano alla mente. Vedevo solo nero attorno a me. Solo quando sono uscito da quell’incubo ho rivisto la luce.

A cinque anni Mike è testimone di un omicidio. Scappa via veloce, non dice niente e si salva. A nove è il boss del quartiere. Ha la voce flebile, allora come adesso quel sussurro sembra completamente fuori posto in un fisico da guerriero. Il faccione da cattivo l’ha sempre avuto, così come quel collo enorme, cinquanta centimetri, e una muscolatura così potente da provocare smagliature sulla pelle. Gioca con i piccioni, che chiama «babies». Ruba nei centri commerciali, aiuta le vecchiette ad attraversare la strada e poi le scippa, pretende la tangente dai negozianti. A 12 anni è già stato arrestato quaranta volte. L’ultimo furto, a una prostituta sulla 42esima strada, lo porta al riformatorio di Tyron. Lì conosce il pugilato, ma scopre che la vita può essere ancora più dura che a Brownsville.

È la prigione a convincerlo che l’unico linguaggio per uno come lui sia quello della violenza. Anche con le donne. Ha solo quattro anni quando è ricoverato all’ospedale di Brooklyn, al 203 di Franklyn Avenue, e la mamma gli porta una pistola giocattolo e una bambola. La pistola gli sfugge di mano e si rompe, lui travolto dalla rabbia sbatte selvaggiamente la bambola sul pavimento fino a farle volare via la testa. Lo ha scritto José Torres nel libro che gli ha dedicato: «Fire&Fear» (fuoco e paura).

«Ho sentito un grande brivido quando ho strappato la testa della bambola. È stato come un orgasmo».

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Catskill, New York, gennaio 1981.

CUS D’Amato ha portato Floyd Patterson e José Torres al titolo dei massimi e dei mediomassimi. È un santone del pugilato. Quasi calvo, un’andatura ciondolante, le gambe arcuate. Abita in una villetta, a Catskill.

D’Amato cura e protegge Tyson. Lo difende quando Teddy Atlas, il maestro a cui l’aveva affidato, gli punta la pistola alla tempia e minaccia di sparargli, accusandolo di aver tentato di stuprare la figliola di 12 anni. Gli sta accanto quando muore la mamma. Lo presenta a Bill Cayton e Jim Jacobs: i primi manager nell’avventura del professionismo.

Mike esordisce il 6 marzo 1985 per una borsa di 500 dollari. Si taglia i capelli cortissimi come Jack Dempsey, si fa mettere due incisivi d’oro come Jack Johnson, sale sul ring senza calzini come Joe Louis. Vince per knockout i primi 19 match, per dodici volte chiude al primo round.

Muore anche Cus D’Amato, sembrano esserci solo tragedie nella vita di Tyson. Tocca a Jim Jacobs fargli da padre. Lui e Mike sono sempre in contatto, Jacobs segue i match con un auricolare. L’altro auricolare è nell’orecchio di Kevin Rooney, ex pugile, scommettitore perdente, il nuovo maestro.

Avanza e distrugge, Mike Tyson. Conosce la boxe, D’Amato gli ha insegnato l’arte della difesa. Lo ha fatto allenare con le braccia legate, mandandolo ad affrontare sparring che sparavano colpi mentre lui cercava di evitarli. Ha chiamato i colpi con dei numeri, ogni sequenza corrisponde a una serie. Lui urla dall’angolo 4-7-10 e Mike porta jab sinistro-diretto destro-gancio sinistro.

Si muove bene sul tronco il giovanotto, sa schivare, accorcia la distanza per poi piazzare bordate di inaudita potenza. È un mostro che sta per divorare tutto e tutti.

«Eddie Richardson? Voglio colpirlo fino a ficcargli il setto nasale nel cervello».

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Las Vegas, Nevada, novembre 1986.

BILL Cayton è in cima alla gradinata dell’enorme salone che ospita la conferenza stampa alla vigilia del match tra Berbick e Tyson. Il nostro giovanotto sta per diventare il più giovane campione del mondo dei pesi massimi. Con il collega Claudio Colombo, inviato del «Corriere della Sera», avvicino il vecchio manager.

– Tyson è molto popolare in Italia. Ci piacerebbe raccontarne la storia, visitare la sua casa di Catskill. Pensa sia possibile?

«Non credo, mi dispiace».

– Perché?

«Dopo ogni match, Mike scompare per un paio di settimane. Dedica quei giorni al sesso. Si chiude in un albergo e non esce fino a quando non si convince di averne abbastanza».

Pensiamo a una scusa per togliersi di torno due giornalisti che conosce troppo poco per consentire loro di entrare nella vita privata del campione. Invece, è la verità.

Quel match Tyson lo vince con una facilità disarmante. Il tragico balletto di Trevor Berbick sul ring dell’Hilton, quel 22 novembre 1986, non lo scorderò mai. Sembra un burattino a cui hanno tagliato i fili. Prova ad alzarsi per poi ricadere ogni volta. Giù, senza equilibrio. Dopo quell’incontro il ragazzo mette assieme altre nove vittorie, unifica il titolo dei massimi, si convince di essere imbattibile. Scoprirà troppo tardi che in un match di boxe puoi difenderti perché c’è un arbitro che fa rispettare le regole. Nella vita, non sempre è così.

E quando arriva il momento di pagare, nessuno ti avvisa prima. A Tokyo, l’11 febbraio del ’90, sale sul ring in pessime condizioni fisiche. James Buster Douglas, forse l’ultimo nella lista dei suoi rivali per il titolo, gli infligge una lezione di boxe. Lo umilia. Lo mette knockout in dieci round, gli toglie il titolo. È vero, se l’arbitro non avesse contato fino a 14, Mike quel match lo avrebbe vinto. Nonostante tutto. Ma se sei in debito con il mondo prima o poi devi rassegnarti a pagare il conto.

Robin Givens ha gli occhi da cerbiatta, viso angelico, corpicino perfetto. Buona istruzione, scuola di recitazione, piccola carriera da attrice in un paio di serial televisivi. Ha sposato Mike Tyson, ha passato con lui mesi burrascosi, ha divorziato il giorno di San Valentino dell’89 e ha chiesto 46 miliardi di dollari come risarcimento. Ne riceve sei l’anno. Sembrava una favola, è un drammone fatto di liti terribili, mobili che volano dalla finestra, tentati suicidi, denunce, ricatti. Poi, finalmente, lei esce dalla sua vita.

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Indianapolis, luglio 1991

Desirèe Washington è la grande vittima di questa storia. La tragedia comincia all’1.40 della notte tra il 18 e il 19 luglio del 1991, quando riceve una telefonata nella camera d’albergo a Indianapolis. È lì per partecipare al concorso Miss Black America. Mezz’ora dopo sarà sola con Mike Tyson nella stanza 606 dell’Hotel Canterbury. Ho letto la deposizione della ragazza al processo, leggetela anche voi.

«Stavamo parlando di Rhode Island, dei bambini, dei cani, dei piccioni, delle nostre famiglie, della vita. Improvvisamente Tyson è cambiato: “Eccitami”. Era una voce che sembrava venire dal nulla. Mi sono spaventata, ho cominciato a balbettare. “Ho bisogno di andare in bagno, quando esco andiamo a visitare Indianapolis come mi avevi promesso”. “Va bene” mi ha risposto. Quando sono uscita dal bagno era seduto sul letto e indossava solo le mutande. Ero terrorizzata. “Voglio andarmene”, e lui: “Vieni qui, non combattermi” e mi mette la lingua in bocca. Mi strappa i vestiti di dosso. Comincia a toccarmi dappertutto, mi fa male. Mi graffia le gambe, mi prende per le caviglie e mi solleva sul letto, comincia a fare del sesso orale. Poi mi penetra. Io gli urlo di avere pietà. Gli dico che ho paura di avere un bambino, lui è senza profilattico e non si controlla. Mi dice di stare tranquilla. “Non combattermi, rilassati”. Quando la sua eccitazione sta raggiungendo il massimo, comincia a sussurrare: “Mommy, non combattermi, rilassati. Mommy, rilassati”. Mi sono sentita gelare».

Il ginecologo che la visita, la tranquillizza: «Non può avere bambini se le sue mestruazioni sono cominciate la mattina del giorno in cui è stata stuprata».

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Plainfield, Indiana, marzo 1995.

MANCANO cinque minuti alle 6 quando una Lincoln Continental con targa «JBT373» dell’Ohio si ferma all’ingresso della prigione. Alla guida c’è Rory Halloway, amico d’infanzia di Tyson. Accanto a lui John Horne, ex attore, che ha presentato Robin Givens a Mike. Sul sedile di dietro Don King e Monica Teresa Turner. Ad attenderlo ci sono anche trecento giornalisti, una cinquantina tra radio e televisioni, mille curiosi. Alle 6.10 Tyson esce dal carcere. È stato dentro per tre anni, per i prossimi quattro sarà in libertà vigilata. In prigione, dice, ha letto Mao, Aristotele e Che Guevara, ha scoperto Malcolm X, si è convertito all’islamismo e ha preso il nome di Mikhail Abdul Aziz, dove la prima parte sta per Michael e la seconda per “servo del Signore”.

In prigione ha ritrovato una vecchia amica, la paura. Era terrorizzato dall’idea di essere violentato, viveva nell’angoscia che qualcuno volesse avvelenarlo. Si faceva portare tutti i pasti da fuori, raramente usciva dalla cella.

Appena uscito dal carcere, visita la Moschea, prega assieme a Muhammad Ali, poi a bordo di un bireattore Lear vola verso la sua villa di Southington: 14 stanze e quattro bagni, ognuno con i rubinetti in oro e marmo di Carrara come pavimento. Un’enorme piscina a forma di guantone da boxe. In garage ha due Porsche, due Ferrari e una Rolls Royce. Mike è tornato.

«Da bambino ho sempre desiderato diventare un duro. I duri sono capaci di qualsiasi atrocità. Ma hanno anche la dignità di guardare negli occhi i loro assassini senza tremare. Nella mia vita non ci sono regole. Sono un agnello da dare in pasto ai leoni. Tutti mi odiano. Lo credo sinceramente, perché nessuno può punirmi più di quanto non faccia io. Non sono ancora morto, ma mi sento come se vivessi all’inferno. Avrei potuto essere uno della mafia. Quando sono dalla tua parte, sono pronto a darti la mia vita. Ma se qualcuno non rispetta me o la mia famiglia, non ci sono altre soluzioni: o muore lui, o muoio io».

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Las Vegas, Nevada, giugno 1997.

UN MORSO, un altro ancora. L’orecchio di Evander masticato e sputato sul tappeto del ring. Iron Mike spalanca la bocca come una belva affamata e fa scomparire tra i denti l’orecchio destro del campione. Un gesto animalesco che rivela fino in fondo la natura di Tyson. Incapace di gestire la propria violenza, la propria vita. È la fine del mito. Quella notte, assieme a quel pezzo di orecchio, Mike stacca il cordone ombelicale che lo lega alla nobile arte, allo sport come mezzo per guadagnare rispetto. È tornato campione del mondo contro Frank Bruno, riprende la via della disperazione contro Evander Holyfield in due scontri che ne ridimensionano il valore di pugile.

«Lui non voleva combattere, voleva solo mettermi giù a testate. E io non potevo permetterglielo, ho dei figli da crescere. Così gliel’ho fatta pagare».

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Copenhagen, Danimarca, ottobre 2001.

CONTRO Brian Nielsen c’è Mike Tyson, l’uomo che a Manchester ha comprato gioielli per un paio di miliardi e ha preteso che a pagarli fosse Frank Warren, l’organizzatore delle sue sfide britanniche. E quando quello si è rifiutato, lo ha picchiato in una stanza d’albergo, ha tentato di stuprarlo e poi ha minacciato di lanciarlo dalla finestra. Combatte ancora Tyson, guadagna altri miliardi e stende nuovi rivali. L’ultimo è un Brian Nielsen decisamente sovrappeso, poi arriverà finalmente Lennox Lewis. È il match che sogna.

– Perché?

«Voglio il suo cuore, voglio mangiare i suoi bambini. Voglio strappargli il cuore e farglielo mangiare.»

Lo urla subito dopo il match di Glasgow contro Lou Savarese, non si presenta in conferenza stampa. Shelly Finkel, ex organizzatore di concerti rock oggi suo manager, prova a giustificarlo.

«Mike non voleva dire quello che ha detto, a lui i biambini piacciono.»

«Yes, well done» dice dalla platea Michael Katz, giornalista del «New York Times». (Sì, gli piacciono ben cotti).

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Memphis, Tennessee, giugno 2002.

ARRIVA il match tanto atteso, non c’è incertezza sul risultato. Lennox Lewis è ancora un pugile, il campione dei pesi massimi. Sul ring di Memphis c’è solo il ricordo di quello che è stato “Iron” Mike Tyson. È triste, ma per la prima volta nella sua vita il ragazzo selvaggio di Brownsville fa pena in chi lo vede. E’ incapace di mettere in piedi una minima reazione. Continua a combattere solo perché non conosce altro modo di esprimersi. È anche il mezzo più veloce per guadagnare quei soldi che gli servono a pagare vecchi debiti e a mantere alto il tenore di vita. Mike ha strappato via anche quella piccola parte di buono che nascondeva dentro di sé. Per comunicare, oramai usa soltanto la violenza.

Una volta, quando il giovane talento aveva conquistato il mondo, qualcuno aveva attribuito a Larry Holmes questa frase: «Tyson? Finirà ucciso dentro uno dei vicoli del quartiere più brutto di una qualsiasi città americana».

Iron Mike è stato sfortunato, tutte le persone a cui voleva bene sono morte. Una dopo l’altra ha perso la mamma, Cus D’Amato, Jim Jacobs. Così, una volta diventato ricco e famoso, si è ritrovato con i vecchi fantasmi. Il passato è tornato a vivere nelle cattive compagnie, nei perfidi consiglieri. Ha pensato di potersi comprare la felicità con i soldi. Ha pensato che tutto per lui fosse possibile. E ha continuato a peccare.

«Bill Cayton e Jimmy Jacobs dovevano finire in prigione per avermi portato al titolo. Pensavo di essere diventato un uomo, ero solo un bambino».

Frequentatore abituale della prigione, capace di discutere solo con i pugni. La gente non gli ha mai perdonato di essere diventato ricco e famoso. Non glielo hanno perdonato soprattutto quelli che erano come lui e tali sono rimasti. Ma gli sono contro anche i ricchi signori che hanno pagato più di mille dollari un biglietto di bordoring per vederlo massacrare il rivale di turno, ma che non hanno mai accettato il fatto che un negro potesse camminare sulla loro stessa strada.

È l’America di oggi che si concentra in una miscela esplosiva. Sul ring Mike Tyson non ha mai evitato nessuno, ha affrontato a testa alta chiunque si sia presentato sul suo cammino. A metterlo ko è stata la vita, quelle rimediate nel pugilato sono state soltanto sconfitte di riflesso.

Questa è la storia di Michael Gerald Tyson, nato senza un padre e cresciuto senza una famiglia. A fargli da compagna ha trovato solo la violenza.

«Quelle due puttane mi hanno rovinato. Desirèe Washington e sua madre si sono inventate uno stupro che non c’è mai stato. Ma credetemi, se me le ritrovassi davanti, stavolta sì che le stuprerei entrambe.»

Parola dell’uomo più cattivo del pianeta.

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