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Bordo Ring

La saga dei Duran

1725036300Carlo, Massimiliano, Alessandro. Una vita sul ring, da oltre cinquant'anni il pugilato nel sangue. Il più piccolo di casa racconta la storia di una famiglia di successo


Una vita sul ring da protagonisti, un fardello difficile da sopportare. Lottare con iricordi è sempre dura. Carlo (al centro), argentino sbarcato in Italia nel 1960, e i suoi figli Massimiliano (a sinistra) e Alessandro. La famiglia Duran, una presenza costante nel mondo della boxe da oltre cinquant'anni.  Il papà apparteneva all’epoca d’oro del pugilato, i figli a un’epoca più facile e allo stesso tempo difficile. Qualche tempo fa sono andato a trovare Alessandro a Ferrara e mi sono fatto raccontare la boxe al tempo dei Duran. Mi sembra che l’intervista regga bene. Così l’ho riproposta.


ALESSANDRO Duran, quando hai sentito per la prima volta la parola boxe?

«Quando sono nato»

E i primi guantoni, quando sono arrivati?

«Avevo un anno, ci sono le foto a testimoniarlo. La boxe in casa Duran è sempre stata una parola magica. Papà era un emigrante argentino, tutto quello che ha avuto nella vita, l’ha ottenuto grazie al pugilato.»

Per questo ti sei sentito costretto a salire sul ring?

«No. Io sono diventato pugile per curiosità. Avevo tre anni e papà mi portava già in palestra. Lui era il mio idolo, il campione da venerare. La boxe era al massimo dello splendore, per gli amici vederlo combattere era diventato un rito. Lo guardavo allenarsi e mi dicevo: da grande farò il pugile anch’io. Ma, probabilmente, dentro di me non ci credevo molto. Massimiliano nella palestra del maestro Strozzi l’ha portato mia madre: “E’ grande, grosso, robusto, gli faccia fare sport”. E’ stato guardando mio fratello che mi sono deciso. Ero curioso di capire perché tutti quelli della mia famiglia amassero la boxe. Avevo 14 anni, ho provato. Ho fatto a cazzotti per altri ventitré anni.»

Papà, ovviamente, era entusiasta della scelta?

«Era contrario. Pesavo 46 chili, non riuscivo neppure a fare il peso mosca. E poi c’era il mio carattere. Per strada, quando scoppiava una lite ero il primo ad attaccare. Papà diceva: “Questo è matto, non ragiona, finirà per farsi ammazzare. Non voglio vedere mio figlio in manicomio”. Poi è entrato in palestra e mi ha visto per la prima volta fare i guanti. Ha capito che si era sbagliato: boxavo arretrando.»

E tu, l’hai visto spesso combattere?

«Cinque o sei volte. Ma sempre in televisione. Diceva che se fossi stato a bordo ring sarebbe stata una sofferenza troppo grande per lui e la mamma. Papà non ce l’avrebbe fatta a boxare con i suoi figli in platea. E così mi mettevo davanti alla tv. Quando sentivo la sigla dell’Eurovisione mi veniva il batticuore, sapevo che dopo qualche minuto sarebbe apparso mio padre. E’ stato un grande campione. Un medio alto 1.85 a quei tempi era una rarità. E poi aveva classe, intelligenza. Tutti lo stimavano. E’ morto da tanti anni, ma la gente ancora mi ferma per strada e mi parla di lui.»

Eravamo rimasti al momento in cui hai deciso di diventare un pugile. Qualche match da dilettante, poi l’esordio al professionismo. Un esordio diverso dagli altri, perché?

«E’ stato il momento più bello della mia vita sportiva. Avevo 18 anni, appena 8 incontri da dilettante alle spalle, e non potevo combattere da pro’. Siamo andati contro tutto e tutti. Io e papà abbiamo preso l’areo per l’America. Abbiamo passato 40 giorni a Chicago a casa dei nonni di mamma. Mi allenavo in una palestra che si trovava nella zona più brutta della città. Cinquanta pugili che si picchiavano sognando il successo. La fame la toccavi con mano, quando vedevi sparring che appena presi i 5 dollari per due riprese scappavano a comprarsi qualcosa da mangiare. C’era l’anima della boxe lì dentro. Ho combattuto contro un tizio che aveva 127 match da dilettante, 119 vittorie. E’ stata dura, ma ce l’ho fatta. E’ stata l’esperienza più importante della mia carriera.»

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Hai ricordi meravigliosi di tuo padre sul ring, cosa mi racconti di tuo fratello Massimiliano, l’altro campione della famiglia?

«Quando Momo combatteva, mi sentivo male. Non dormivo la notte prima del match, mi veniva da vomitare. Succede sempre così quando sei all’angolo di una persona a cui vuoi bene. Anche se lo conosci perfettamente, non puoi essere sicuro di quello che gli passa per la testa. E così in preventivo metti anche la possibilità che possa perdere. Cosa che non rientra mai nei tuoi pensieri quando sul ring ci sei tu-»

La sconfitta. Una parola che fa paura, cosa significa per un pugile?

«E’ un dramma. I giorni che seguono una sconfitta sono un tormento. Nella boxe non sai mai quando avrai la prossima occasione. Non c’è un calendario a garantire le tue ambizioni. Per uscire da questa situazione devi fare appello a tutto il tuo orgoglio, alla forza morale. L’intelligenza deve aiutarti a capire dove hai sbagliato o ad ammettere che chi ti ha battuto è stato migliore di te.»

Anche questo te l’ha insegnato tuo padre?

«Da papà ho imparato il significato della parola lealtà, a non avere paura di dire sempre quello che penso. Mi ha lasciato un grande rispetto per questo sport. E’ stato un atleta serio: in attività non l’ho mai visto andare a letto dopo le 22.30, entrare in un bar, saltare un allenamento.»

Una famiglia unita la vostra, una famiglia in cui tu eri un po’ il cocco di tutti.

«Ero il figlio più piccolo. Massimiliano era più grande e più grosso. Ma cocco no, è stato mio fratello quello che papà ha seguito di più».

E’ stata dura essere i “figli del campione Carlos Duran”?

«Sicuramente lo è stato all’inizio delle nostre carriere per i continui paragoni che la gente voleva fare a tutti i costi. Poi però avere vicino un uomo esperto, un grande professionista, è stato di enorme aiuto ed ha superato quello che avevamo pagato in emozione o in complessi nei primi tempi dell’attività. Papà ha sempre avuto fiducia in me, continuava a ripetere: “Se avessi avuto le mani di Alessandro oggi avrei in bacheca la cintura mondiale”. Per Massimiliano la morte di papà è stata una tragedia come figlio ed un dramma come pugile. Lui era meno istintivo di me, più costruito. Papà lo teleguidava dall’angolo.  La sua morte ha accorciato la carriera di mio fratello.»

Una volta Massimiliano mi disse che gli capitava di parlare con Carlos anche dopo che lui era morto. Tu hai ugualmente un legame così forte col ricordo di papà?

«Per tanti anni, tutte le mattine, quando tornavo dal footing andavo al cimitero. Finivo la mia ginnastica davanti alla tomba di papà. Nei primi tempi le vecchiette che erano lì a pregare i loro morti mi prendevano per matto, poi sono diventate le mie più grandi tifose.»

Dopo tanto parlare del papà, vogliamo dire qualcosa anche su mamma Augusta?

«E’ eccezionale. E’ stata sempre lì a bordo ring a soffrire per i suoi cari. Il nostro è un ambiente affascinante, ma difficile. Non ci si scambia carezze. Lei ci ha sempre lasciato libertà di scelta. Seguiva papà agitandosi sulla poltrona a bordo ring. Con noi a vincere era la paura. Vedere combattere i figli le creava ansie continue. Se ne stava lì in silenzio. Di papà era anche una tifosa, per noi è stata sempre e solo la mamma. E’ normale che fosse così»

Carlos ripeteva spesso che Augusta è un “comandante”. Cosa intendeva dire?

«Che in palestra era lui a comandare, ma in casa le cose cambiavano. E’ stata lei che si è presa cura delle nostre vite. A volte è stata anche la mamma di mio padre.»

La paura. Mike Tyson dice che il pugile che non ce l’ha è un pazzo che rischia continuamente la vita. <sei d’accordo?

«Io dico che chi non ce l’ha è un incosciente. La boxe è uno sport per uomini duri, dall’altra parte c’è un tizio che ti vuole picchiare e tu non devi permetterglielo. Chi non ha paura, diciamo meglio: rispetto per quello che fa e per il rivale che affronta, vuole dire che è arrivato al capolinea. Devi avere rispetto per il tuo avversario, così lo avrai anche per te stesso. Non puoi mentire, il bluff non fa parte di questo sport. Il ring è come la vita: alla fine devi rendere conto di quello che hai fatto. Solo che nella vita non sai quando dovrai farlo, nel pugilato dopo 36 minuti c’è un giudizio a cui non puoi sfuggire.»

E quale sono le altri doti che un pugile è obbligato ad avere?

«Il coraggio. Ci sono bulletti che vengono in palestra e sul ring scappano come autentici fifoni. Ma attenzione: il coraggio deve sempre essere accompagnato dalla ragione. Altrimenti diventa stupidità..»

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Presentando un tuo incontro con Piccirillo qualcuno aveva decisamente esagerato, arrivando a paragonare il vostro match con quelli tra Benvenuti e Mazzinghi.

«Era un paragone che non reggeva. Erano altri momenti, un’altra epoca. La boxe coinvolgeva e appassionava tutta l’Italia. Assieme a calcio e ciclismo era lo sport più popolare. Logico dunque che le dimensioni dei due personaggi fossero diverse. E poi quando combatteva papà era molto più difficile arrivare al mondiale: c’erano solo otto categorie e le sigle non erano così tante come oggi. Ma allora si guadagnavano anche molti più soldi. Papà, anche senza conquistare il titolo, ha incassato in carriera dieci volte più di noi. E’ un paragone che lascerei perdere.»

I Duran. Dicono che siate gente con cui è difficile avere a che fare.

«Dicono che abbiamo un carattere difficile. La verità è che diciamo sempre quello che pensiamo ed a volte questo crea dei problemi. Ma sono felice di non essere ancora sceso a compromessi. E poi: la smettano di dire che siamo due “figli di papà”. Abbiamo lottato duramente per ottenere quello che siamo riusciti a conquistare. Massimiliano ha vinto il mondiale contro un avversario del valore di De Leon. Io ho vinto il titolo a 31 anni. Ci provino gli altri.»

Abbiamo passato in rassegna l’intera famiglia, ci siamo dimenticati di parlare di Anna Caterina, tua moglie.

«Mi sono fidanzato a 21 anni, avevo già fatto dieci match da professionista. Quando sono tornato a casa con la lettera della Federazione che mi comunicava la nomina a sfidante del titolo italiano, ho visto Anna Caterina piangere. E’ stata l’unica volta. Mi ha aiutato nei momenti più bui.»

E di te come pugile cosa pensava?

«Anche lei credeva, come faceva la mamma col papà, che io fossi invincibile.»

http://dartortorromeo.wordpress.com/


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