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Bordo Ring

Mugabi, la sua storia

brwLo chiamavano “La Bestia", era un picchiatore terribile. Il suo match con Hagler è stato uno dei più feroci nella storia della boxe. Il montante destro con cui ha centrato il campione nel quarto round avrebbe steso chiunque, ma il Meraviglioso...

Non era stato un match di pugilato ma una guerra selvaggia. Guardarli combattere era stato eccitante e spaventoso. Avevo visto sul ring due nobili tigri che si azzannavano e lottavano senza risparmiarsi, mettendo nella contesa tutta la loro fisicità. Avevo avuto paura, avevo strillato quasi a ogni colpo. Non credevo fosse possibile che due uomini potessero picchiarsi con tanta precisione, con tanta potenza e riuscissero a rimanere in piedi. Mi sembrava un miracolo, era solo boxe nella sua essenza più pura. Un’arte nobile e crudele allo stesso tempo. Ed era proprio questa doppia anima, classica e feroce, a renderla passione pura, a trasformare ogni gesto in un sacro rituale portato avanti da due sacerdoti che conoscevano ogni verso di quella liturgia.

Lo chiamavano “The Beast”, la bestia, e avevano tutte le ragioni per farlo.

John Mugabi era nato in Uganda, nel periodo in cui il Paese africano era sotto la dittatura di Idi Amin Dada. Aveva cominciato a boxare per fame. Nel primo match aveva preso un sacco di botte e mamma Onec aveva deciso che non sarebbe andato avanti. Ma con la complicità di papà Tamtel, in qualche modo era riuscito a convincerla.

Analfabeta e povero, passava gran parte delle giornate in palestra. Il resto lo trascorreva in strada, mettendosi spesso nei guai. La sua specialità era quella di scavalcare le finestre ed entrare nelle case dei bianchi di Kampala. Rubava cibo a quei ricchi signori e scappava via veloce con gli amici con cui divideva il bottino.

Si era presentato alla leva della nazionale per i Giochi di Mosca indossando cenci sporchi e a piedi nudi. Quello che cercava era cibo, non la gloria. L’aveva avuto. Era il 1979, l’anno in cui era morto il papà in un incidente d’auto. La mamma era rimasta sola a crescere sette figli. Mugabi era riuscito ad andare all’Olimpiade del 1980 e aveva vinto l’argento nei welter, battuto in finale dal mitico cubano Andres Aldama. Poi John aveva lasciato l’Uganda e il suo lavoro di meccanico. Era passato professionista con Mickey Duff a Londra.

Viveva in una piccola casa. L’unica cosa che gli interessava in quel periodo era la musica. La sparava a palla, amplificatori al massimo del volume che generavano centinaia di proteste da parte dei vicini. Lui, non capendo cosa dicessero, li guardava spalancando gli occhioni e rispondendo loro in Swaili.

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Ben presto il manager inglese aveva trovato il nome d’arte da regalare al suo protetto. Glielo aveva suggerito Jackie McCoy, un matchmaker di Los Angeles: “Amico, ho sedici ottime promesse, sono pronto a scambiarle tutte con lui. E’ una bestia”. Detto, fatto. Era nato “The Beast”, la bestia. Per onorare quel soprannome, Duff l’aveva fatto posare, per alcune foto pubblicitarie con  tappeti in pelle di zebra sullo sfondo.

Dopo la prima esperienza americana, Don King era rimasto così entusiasta da chiamare Duff a Londra.

«Ehi Mickey, ho parlato con Mugabi dopo il match. Mi ha confessato che vorrebbe firmare per me, ovviamente gli ho risposto che io e te siamo soci nell’affare

«Ehi Don, sono contento che tu abbia parlato con John. Non sapevo conoscessi alla perfezione lo Swahili, perché il ragazzo non parla una parola di inglese, né di qualsiasi altra lingua.»

John Mugabi quando era salito sul ring per affrontare Hagler aveva il volto senza un segno, sembrava che gli scontri dei precedenti combattimenti non avessero lasciato tracce in quel nero dallo sguardo fiero. Una barba appena pronunciata ne incorniciava il viso. Occhi attenti, muscoli compatti, bicipiti esplosivi.

Per cinque round avevo assistito a un match intenso, duro, spietato. Picchiavano come pesi massimi, ma avevano la velocità dei welter.

Un lampo nella quarta ripresa, quando il montante destro di Mugabi, a venti secondi dalla fine del round, aveva centrato Hagler al mento. Un pugno che avrebbe messo giù chiunque, un colpo che avrebbe folgorato un bue. Ma il Meraviglioso era più duro di una roccia, più forte di un animale, più resistente di qualsiasi altro uomo del suo peso. Ed era andato avanti, come se l’altro gli avesse semplicemente dato un buffetto, uno schiaffetto, come si usa fare con i bambini quando si vuole scherzare con loro.

Muscoli che guizzavano sul torace, disegnavano immagini di potenza sulla schiena. Occhi che incutevano rispetto. Nessuno spazio concesso a se stessi, ogni goccia di sudore doveva essere versata in onore della lotta, della guerra che stavano combattendo. Cinque riprese di un livello assurdo, uno spettacolo esaltante. Perché quei due non si picchiavano cpme rissaioli da strada. No, ogni colpo seguiva linee precise. Non c’era alcuna volgarità tecnica nei loro gesti. Solo arte, nobile e feroce.

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Poi avevo assistito a qualcosa che non avrei più dimenticato.

Il sesto round.

Il diretto sinistro di Hagler aveva centrato Mugabi.

Era l’inizio di un’azione che sembrava non dovesse mai finire. Un minuto di attacchi, di colpi ininterrotti.

È lungo un minuto sul ring, picchiare per così tanto tempo ti prosciuga le energie, ti succhia l’anima, ti espone alla reazione dell’altro. Sempre che l’altro abbia avuto la forza di restare in piedi. L’ugandese c’era riuscito e negli ultimi trenta secondi era stato lui a trasformarsi in attaccante. E aveva picchiato. Mazzate che si erano abbattute sul fisico del Meraviglioso, debilitato dallo sforzo. Prima l’uno, poi l’altro erano sembrati sul punto di crollare, vicini al baratro del knock out. Ma erano rimasti in piedi.

Picchiavano, incassavano, amavano quello che stava facendo.

Era una furia John Mugabi. Colpi dritti, ganci, montanti. Colpi portati con un ampio compasso di gambe. Ben piantato sul ring, deciso a fare male. Ma Hagler aveva incassato qualsiasi cosa. E aveva restituito con gli interessi. Settima e ottava ripresa erano state sue. Poi, l’intervallo.

Mickey Duff all’angolo, metteva la sua faccia a dieci centimetri da quella di Mugabi. Parlava lentamente con quell’accento inglese acquisito, una voce soffocata come se le parole volessero rientrare da dove erano appena uscite.

Parlava lentamente affinché ogni termine entrasse nella testa del pugile che ora aveva un rapporto meno conflittuale con la lingua inglese.

«Devi alzare il ritmo. John, non puoi più aspettare. Devi farlo per te. Colpiscilo in qualsiasi parte del corpo e lui andrà giù. Devi farlo per te John, non per me

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John Paul Mugabi era sul ring del Caesar Palace di Las Vegas e si stava battendo per il mondiale unificato dei pesi medi contro Marvin Hagler. Uno che picchiava come un fabbro ed era resistente come l’acciaio. Cosa avrebbe dovuto fare?

«Congratulazioni John, sei rientrato nel match. Ora la sfida è in parità. Mi hai capito? Siete pari.»

Mentiva sapendo di mentire Mickey Duff.

Hagler aveva l’occhio destro quasi chiuso. Era stanco. Ma era in chiaro vantaggio. Io avevo tre punti per lui alla fine della decima ripresa. Come Jerry Roth e Dalby Shirley (97-94), mentre il terzo giudice Dave Moretti era stato più severo con il Meraviglioso (96-95).

«Puoi farcela John, sei fantastico.»

Duff le stava provando tutte. Eppure aveva visto benissimo che gli ultimi trenta secondi del decimo round erano stati di autentica sofferenza per il suo pugile. Il campione lo aveva portato sul ciglio del burrone, un’altra piccola spinta e sarebbe finito giù. Incapace di rialzarsi, knock out.

Undicesima ripresa. Passavano 1:19 prima che il campione cominciasse l’attacco decisivo. Tre destri consecutivi, un sinistro, ancora due destri. Lo sfidante pedalava all’indietro, veniva sballottato come un fuscello, cercava appoggio alle corde, scivolava giù.

Seduto sul tappeto, John guardava l’arbitro. Lo sguardo di Mugabi era perso nel vuoto. Era incapace di rialzarsi, di parlare, di difendersi. L’arbitro Mills Lane aveva incrociato tre volte le braccia, poi aveva alzato in altro il destro. Era finita. A 1:29 di quell’undicesimo round The Beast aveva concluso la sua guerra. E l’aveva persa.

Hagler era stremato, non aveva neppure la forza di esultare. Alzava lentamente le braccia verso l’alto, poi si faceva tirar su da Pat e Goody Petronelli. Tra le braccia degli amici di sempre esultava. Era stato sull’orlo del burrone, si era ripreso e aveva vinto. Quella notte era stato davvero Meraviglioso.

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