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Bordo Ring

Garcia, nel nome del padre

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Danny, grande campione del mondo, ha realizzato il sogno di Angel che aveva nel suo passato lo spaccio e la prigione. Poi il riscatto attraverso l'amore per il figlio...

Bayamon è un piccolo centro nell’immediato entroterra nord orientale di Portorico. Confina ad est con Guaynabo, la località dove è nato Luvi Callejas. Sono stato laggiù una sola volta, per la difesa mondiale di Loris Stecca, ed ho riportato a casa tanti ricordi. Il calore della gente; un caldo asfissiante che mi faceva sentire come se fossi immerso nella melassa; la poesia di un gruppo di anziani che giocavano a domino su tavolini in marmo, lungo i vicoli del porto. E soprattutto la grande passione per la boxe. Un sentimento religioso, ascetico, al confine con il fanatismo. Ma anche un rispetto estremo per una disciplina che da quelle parti hanno sempre considerato davvero nobile.

La palestra dove si allena Danny Garcia a Filadelfia ha le pareti coperte dai ritratti di Felix Trinidad, Hector Macho Camacho, Miguel Angel Cotto, Wilfredo Benitez. Li ha disegnati un suo amico che di mestiere fa il tatuatore.

Quelli sono pugili che hanno scritto pagine di storia in questo sport. Il locale è in una stanza di un vecchio edificio abbandondato, acquistato e ristrutturato dalla famiglia Garcia. Nello stesso stabile ci sono anche un barbiere, un rivenditore di ricambi per auto e uno studio di registrazione.

Ma è quella stanza, con un ring al centro, a essere il regno dei Garcia.

GarciaMatDanny (nella foto, a destra contro Matthysse), il campione del mondo dei superleggeri, è nato a North Philly, la zona a rischio della vecchia Filadelfia. La crisi economica degli anni Ottanta l’aveva segnata profondamente. Lì si muoveva gente che voleva fare soldi in fretta.

Era la zona dei Blue Tape Warriors, una gang che gestiva lo spaccio di droga tra l’Ottava strada e Butler. Un commercio all’aperto, senza sentire la necessità di nascondersi. I muri attorno erano ricoperti di graffiti. Parlavano il linguaggio delle gang, predicavano l’illegalità.

Angel Garcia ci aveva provato a rimanere onesto. Veniva da Bayamon, sua moglie Mariza era di Noguabo. Una coppia di portoricani come tanti, con due figli da accudire. Erik, il più grande, e Danny più piccolo di due anni.

Angel aveva trovato lavoro in una fabbrica di vestiti. Ma a fine mese riusciva a mettere assieme poche centinaia di dollari, vendendo droga ne accumulava migliaia. E poi era la cultura del posto a dirgli che quella era l’unica cosa giusta da fare. Ovunque si girasse vedeva gente che soffriva e uomini che potevano permettersi macchine di lusso, cappotti da 600 dollari e cibo sicuro per tutta la famiglia.

Angel era tornato a spacciare per i Blue Tape Warriors.

Danny cresceva in fretta. Era un bambino vivace, spesso correva per casa tirando pugni all’aria. A sette anni il papà l’aveva portato in una palestra e gli aveva fatto vedere come si portano i colpi principali. Anche lui avrebbe voluto essere un pugile, ma non ce l’aveva fatta. Il figlio l'avrebbe aiutato a realizzare un sogno.
Era stata quella una visita veloce, la regola diceva che prima del decimo compleanno un ragazzino non poteva frequentare una palestra di boxe. E quella regola neppure Angel poteva infrangerla.

Aveva dieci anni Danny Garcia il 20 marzo del 1998, quando aveva finalmente fatto il suo ingresso ufficiale all’Harrowgate Boxing Club. Cinque mesi dopo il papà veniva arrestato.

Angel si trovava in una casa di Hunting Park, la sua zona di spaccio. Mariza l’aveva pregato di non andare. Aveva fatto un brutto sogno ed aveva paura che potesse accadergli qualcosa di terribile. Lui aveva scrollato le spalle, si era chiuso la porta di casa alle spalle ed era andato al “lavoro".

La polizia aveva circondato l’edificio, Angel per scappare si era lanciato dal secondo piano. Per sua fortuna non si era rotto nulla, ma appena piombato sul prato era stato ammanettato e portato via.

Il processo era stato veloce. Lui si era dichiarato colpevole e il giudice l’aveva condannato a due anni di prigione.

Ne aveva viste tante nella sua vita Angel Garcia. Il cognato era stato ucciso da un colpo di pistola quando era ancora un ragazzo, un amico era stato trucidato con dieci pallottole sulla faccia. Lui stesso aveva avuto due pistole puntate alla testa. Gli era andata bene ancora una volta, i rapinatori gli avevano preso ottomila dollari di cocaina ed erano scappati via.

In cella aveva riflettuto a lungo. E aveva deciso di cambiare. Mariza, Erik e Danny avevano bisogno di un marito e di un padre. Lui aveva bisogno di una famiglia.

dannyepapaAveva comprato quel vecchio edificio a North Philly e l’aveva rimesso a nuovo. Ora aveva una missione da compiere. Portare suo figlio al titolo mondiale (nella foto, Angel a destra e Danny alla conferenza stampa dopo il match con Matthysse).

Per riuscirci lo ha sottoposto a un regime militare. Ne ha gestito la dieta in maniera ossessiva, ha controllato tutte le sue amicizie, ha concesso rare uscite con le ragazze. Ma non andate a dire a Danny Garcia che il papà ha sbagliato. Sarebbe la maniera migliore per farlo arrabbiare.

Da dilettante Danny andava molto bene, nel suo record 107 vittorie e 13 sconfitte. Sognava i Giochi di Pechino. Era il 2006 e il destino aveva deciso che la parola felicità non dovesse entrare in casa Garcia.

Ad Angel avevano diagnosticato un tumore alla gola. I dottori gli avevano pronosticato al massimo sei mesi di vita.

Un’intensa chemioterapia, un periodo di digiuno quasi assoluto (non poteva mangiare e veniva alimentato solo attraverso un tubo nello stomaco), una debolezza sensa confini.

Il figlio, giovane pugile in ascesa, aveva perso la passione per lo sport. Venivano in tanti a proporsi come nuovo maestro, manager di fiducia e chissà quanto altro ancora. Lui ringraziava tutti e li rimandava a casa.

Come nelle favole, il papà allenatore era tornato in palestra. Era il 2007. Non stava ancora benissimo, ma aveva recuperato gran parte delle forze (solo nel 2009 avrebbe avuto la certezza della regressione della malattia). Era arrivato il grande momento. Danny passava professionista e diventava “the swift”, il veloce.

Da allora ha vinto tutti e 27 in match che ha disputato, sedici volte ha chiuso prima del limite. Ha battuto due volte Erik Morales, ha sconfitto Amir Khan e Zab Judah. E’ diventato campione del mondo dei superleggeri e pochi giorni fa ha battuto Lucas Martin Matthysse, un argentino che aveva collezionato 34 vittorie, trentadue delle quali per ko. E’ stato il match che lo ha definitivamente consacrato protagonista assoluto (http://www.youtube.com/watch?v=35mN61yBtC0).

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Ora passerà tra i welter, salirà di categoria. Lo ha già annunciato. E, forse, nel maggio del prossimo anno lo vedremo contro Floyd Mayweather.

Il ragazzo mi ha entusiasmato. E’ un pugile che ha sempre il match in mano, uno capace di gestirsi con infinita pazienza e grande coraggio. Abile nello smontare qualsiasi iniziativa dello sfidante, preciso ogni volta che decide di contrattaccare. Una saggezza tattica che appartiene ai fuoriclasse. Ho visto un grande ed ho deciso di scrivere la sua storia.

Ho saccheggiato i giornali americani, ho parlato con qualche amico nordamericano (ho la fortuna di trovarmi da queste parti), ho riletto alcuni scritti del passato ed ho messo assieme il racconto di una vita che a me sembra regali molti spunti di ottimismo.

Puoi precipitare in fondo al burrone, ma se lotti con coraggio e volontà potrai tornare a vedere la luce. Nello sport, come nella vita. La boxe spesso viene additata come luogo di violenza e perdizione. Io dico che da queste parti si può trovare la redenzione. Altrove non so.

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