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La Boxe nella storia

Robinson, LaMotta e il massacro di San Valentino

Due fantastici campioni contro  in un indimenticabile match

  Lo chiamarono : il “Massacro del giorno di San Valentino”

Di Matteo Biancareddu

 Nella lunga epopea della boxe mondiale,lastricata di incontri memorabili, il sesto match tra Sugar Ray Robinson e Jake LaMotta campeggia come una pietra miliare.

  Quell’incontro, che chiuse una rivalità tra le più entusiasmanti e durevoli dal secondo dopoguerra a oggi, resta fermo nell’immaginario collettivo come un evento sospeso a metà tra storia e leggenda, tanto epico fu il suo svolgimento e drammatico il suo epilogo. A mitizzarlo ulteriormente, poi, è intervenuta una folta produzione giornalistica,letteraria e cinematografica, che conferma il potere suggestivo esercitato da quel match.

 Martin Scorsese, un regista italoamericano tra i più importanti del Novecento, ne fornì un’interpretazione iperrealistica nel film “Raging Bull”, “Toro Scatenato” (1980), un adattamento cinematografico dell’autobiografia pubblicata dallo stesso LaMotta nel 1970. E questo è solo un esempio, forse il più significativo, del fascino che quella sfida ha esercitato sul pubblico attraverso gli anni e i decenni, conservandolo intatto fino ai nostri giorni .

 

Per capire cos’abbia di speciale quell’incontro, è indispensabile vederlo. O almeno leggerne, come si potrà fare nel prosieguo di questo articolo. Prima, però, è necessario contestualizzarlo storicamente. Jake LaMotta e Sugar Ray Robinson si affrontarono a Chicago il giorno di San Valentino del 1951. LaMotta era il campione mondiale dei pesi medi: aveva tolto il titolo al francese Marcel Cerdan nel 1949, e l’aveva poi mantenuto respingendo gli assalti dell’italiano Tiberio Mitri e del francese Laurent Dauthuille.

robinson vs LaMotta

Nato a New York, nel famigerato quartiere del Bronx, il 10 luglio 1921, Giacobbe LaMotta era figlio di due italiani trapiantati negli Stati Uniti. Suo padre Giuseppe, che a Messina faceva il muratore per poche lire, si era imbarcato per l’America in cerca di una vita migliore. Ma la vita, in quartieri come il Bronx e Brooklyn, non era affatto semplice per gli immigrati italiani: ghettizzati e guardati con sospetto, essi si arrabattavano per sopravvivere nella spietata, stritolante giungla urbana. Un ragazzo che fosse nato e cresciuto su quelle strade aveva solo due vie per provare ad affrancarsi dalla miseria cui era condannato: lo sport e il crimine. E LaMotta, negli anni giovanili, sembrò più propenso per la seconda. Fin da piccolo, spinto dal padre, si cimentò in incontri di boxe con i propri coetanei, per il solo diletto degli adulti che accorrevano ad assistere. Quelle esibizioni gli fruttavano qualche nichelino che lui puntualmente affidava alle mani del padre. Da lì ai primi crimini, la strada era in discesa. Suo compagno di scorribande era tale Thomas Rocco Barbella, che avrebbe poi infiammato le folle intorno ai ring con il nome di Rocky Graziano. Come lui, anche LaMotta conobbe il riformatorio e il carcere. Si convinse persino di aver commesso un omicidio quando, ancora ragazzino, spaccò la testa a un allibratore con un colpo di spranga: Jake scappò via e non seppe più nulla di quella faccenda, ma il rimorso l’avrebbe tormentato per anni. Finché, la sera di un match, ritrovò quell’uomo seduto a bordo ring ad applaudirlo: scoprire di non essere un omicida fu, per LaMotta, come levarsi un peso dall’anima.

LaMotta Rocky il toro

La storia del “Toro del Bronx” è di per sé uno stereotipo sociologico: LaMotta è uno degli innumerevoli ragazzi che la boxe ha salvato, dando loro il modo di scappare da una vita che li avrebbe altrimenti fagocitati. Diventato un pugile professionista, Jake iniziò una feroce arrampicata ai quartieri alti della sua categoria, quella dei pesi medi. Il suo stile di combattimento, indomito e coraggioso fin oltre il limite dell’incoscienza, era lo specchio fedele della fame che aveva addentato il suo stomaco per lunghi anni. LaMotta vedeva finalmente una possibilità di riscatto: niente e nessuno gli avrebbero impedito di coglierla. Ma il mondo della boxe statunitense non era meno inquinato di qualunque altro business: in quegli anni, soprattutto, nessun pugile accedeva a un campionato mondiale senza prima omaggiare chi di dovere. I fili dietro le quinte del palcoscenico pugilistico erano mossi da Frank Carbo, un gangster italoamericano che gestiva il racket delle scommesse. Carbo era uno di quei malavitosi che non si facevano scrupolo a ordinare la morte di chi ne intralciasse gli affari. Se LaMotta voleva il titolo mondiale, doveva scendere a patti con lui. E scendere a patti significava fare un favore per riceverne un altro in contraccambio. Per molti anni, LaMotta non volle saperne nulla: conosceva gli uomini come Carbo per esserci cresciuto vicino, e ne diffidava perché sapeva che avrebbero potuto trascinarlo nei bassifondi da cui era fuggito. Alla fine, però, non gli restò altra scelta che cedere: se voleva disputare il mondiale, una stretta di mano con Carbo era “conditio sine qua non”. E fu così che LaMotta perse. Perse con Billy Fox, un aitante nero di Filadelfia che Carbo si era messo in testa di portare fino al titolo dei mediomassimi. A dispetto dei molti KO collezionati, molti dei quali fasulli, Fox era un mediocre: LaMotta avrebbe potuto perderci solo di proposito. E infatti fu così: Jake si fece colpire senza accennare una reazione e fu fermato dall’arbitro nel quarto round. L’unica concessione che fece al suo orgoglio, contravvenendo all’esplicita richiesta di Carbo, fu rifiutarsi di poggiare anche solo un ginocchio a terra: andava così fiero del fatto di non essere mai stato messo al tappeto da non essere disposto a barattarlo neanche con un titolo mondiale. La sostanza, comunque, non mutò: Carbo aveva ottenuto di aggiungere un successo prestigioso alla collezione di Fox, e avrebbe restituito il favore concedendo a LaMotta l’agognata occasione mondiale. Le autorità, tuttavia, avevano capito in anticipo ciò che sarebbe successo in quel match: le scommesse, i cui flussi erano stati giudicati anomali, furono sospese, e presto sarebbe stata istituita una commissione del Senato che avrebbe indagato su quel match e su tanti altri. LaMotta combatté finalmente per il titolo mondiale nel 1949, sfidando il campione Marcel Cerdan. Algerino trapiantato in Francia, Cerdan era un fuoriclasse: forse il miglior pugile europeo di tutti i tempi. Aveva conquistato il titolo spodestando Tony Zale dopo sette anni di regno (otto se si considera l’iniziale conquista del titolo NBA), ed era noto, oltre che per il valore pugilistico, anche per la sua relazione sentimentale con la cantante parigina Edith Piaf. Nel match con LaMotta, Cerdan si slogò una spalla già nel primo round, cadendo al tappeto su un gancio sinistro accompagnato del rivale. Si rialzò e resistette per altri otto round, sopportando stoicamente l’inclemente bastonatura che lo sfidante gli inflisse. Quindi, si afflosciò sullo sgabello al termine del nono round, senza tornare a centro ring per la ripresa successiva. Fu così che LaMotta strappò dalle sue mani il titolo mondiale dei medi. Una rivincita era d’uopo, perché una vittoria ottenuta grazie all’infortunio dell’avversario ha un valore limitato; ma il secondo match non si sarebbe mai disputato. L’incontro, già concordato, fu rimandato per un infortunio dichiarato da LaMotta, che se il suo amico Rocky Graziano avrebbe poi rivelato essere fasullo: Jake non si era infortunato realmente, ma aveva semplicemente trascurato di prepararsi a dovere. La rivincita fu quindi spostata al mese di dicembre del 1949. Cerdan, prima di iniziare la preparazione, salì su un volo Air France per New York, dove l’attendeva Edith Piaf. L’aereo si schiantò contro il Monte Redondo, nell’isola di Sao Miguel, arcipelago delle Azzorre: nessuna delle quarantotto persone a bordo sopravvisse. Sfumata la rivincita con Cerdan, che l’avrebbe visto partire sfavorito, LaMotta difese il titolo contro l’italiano Tiberio Mitri, pugile dall’ottima linea stilistica e dal volto fotogenico. Alcune fonti riportano che Carbo, con buona pace di LaMotta, avesse arrangiato l’incontro per far vincere il triestino, che aveva i requisiti ideali per diventare il beniamino di tutti gli italiani d’America. Ma, durante l’incontro, la mancanza di personalità denunciata da Mitri avrebbe suggerito al gangster un ripensamento. E LaMotta, lasciato libero di scatenarsi, poté vincere il match senza molta fatica. La successiva difesa del titolo, l’ultima prima del match con Robinson, fu tenuta il 13 settembre 1950. LaMotta, che ormai faticava a rientrare nel peso di 160 libbre, raccolse la sfida del francese Laurent Dauthuille, il “Tarzan di Buzenval”, un pugile atletico e resistente ancorché senza slanci di classe. LaMotta, debilitato per la dieta forzata degli ultimi giorni, soffrì enormemente il ritmo imposto dal rivale, ed era in netto svantaggio nei punteggi quando, ad appena tredici secondi dalla fine del match, riuscì incredibilmente a mettere KO lo sfidante. I francesi, che si apprestavano a celebrare Dauthuille come il vindice di Cerdan, dovettero inghiottire l’amaro boccone: LaMotta aveva le proverbiali sette vite.

Robinson primo piano giovane

Sugar Ray Robinson nacque Walker Smith Jr a Detroit, nel Michigan, nel 1921, ma era ancora un ragazzino quando si trasferì con la famiglia ad Harlem, il quartiere nero di New York. Quando ancora viveva a Detroit, il piccolo Walker, come ricordava il futuro allenatore Eddie Futch, bazzicava il Brewster Recreation Center Gym, la palestra dove si allenavano lo stesso Futch, allora promettente pugile dilettante, e Joe Louis, futuro campione dei pesi massimi allora neanche maggiorenne. Dopo il trasferimento ad Harlem, il giovane Walker, vedendo Louis consacrarsi campione, lo elesse a proprio eroe e modello, come innumerevoli ragazzi neri in tutto il Paese. Anche nel suo caso, l’interesse per la boxe fu provvidenziale per allontanare le cattive compagnie che lo tentavano. E fu in quel periodo che Smith, non ancora in età per combattere un match ufficiale, diventò per tutti Ray Robinson usando il documento di un ex pugile, il cui nome era appunto Ray Robinson, per disputare legalmente un incontro. Di lì in avanti, il suo cammino fu quello del predestinato: vinse il prestigioso torneo Golden Gloves e si guadagnò l’appellativo “Sugar” quando il giornalista Jack Chase, vedendolo combattere, definì la sua boxe “sweet as sugar” (“dolce come zucchero”) e cominciò a chiamarlo Sugar Ray nei suoi articoli. Le sue movenze, in effetti, erano così armoniche, eleganti e perfettamente coordinate da risultare quasi ipnotiche per chi le ammiri ancora oggi. Robinson passò professionista come peso welter nel 1940, vincendo i primi quaranta incontri disputati (quanti molti pugili odierni combattono in una carriera intera) prima di inciampare in Jake LaMotta. Quel match, datato 1943, fu solo il secondo episodio di una saga che ne avrebbe contati sei: il primo, risalente all’anno prima, era stato appannaggio di Robinson. LaMotta, più pesante del rivale, vinse ai punti dopo avere atterrato Robinson nell’ottava ripresa. Di quello storico momento non esiste testimonianza filmata, ma resta una celebre fotografia che ritrae Robinson nell’atto di cadere oltre le corde. Ray fu salvato dal gong al conto di nove, ma perse ai punti con verdetto unanime. Quella sconfitta è storica non tanto perché fu la prima di Robinson, quanto perché sarebbe rimasta l’unica nei suoi primi 131 match (!). Insomma, LaMotta restò per molti anni l’unico pugile che avesse battuto un uomo poi risultato imbattibile. La marcia di Sugar verso il titolo mondiale dei pesi welter fu coronata a dicembre del 1946, ma rischiò di deragliare un mese prima, quando un peso medio di nome Artie Levine si spinse a un passo dal mettere KO Robinson. Levine spedì l’avversario al tappeto nel quarto round e l’ebbe in pugno nei minuti seguenti, ma non seppe finirlo. E Robinson, una volta superata la tempesta, riuscì dove il rivale aveva fallito. Anche con Tommy Bell, che solo un mese dopo gli contese il vacante titolo mondiale dei welter, Robinson ebbe non poche difficoltà: reduce dalla dura prova con Levine, aveva sottostimato l’impegno e vi si presentò mal preparato. Ma la sua classe s’impose con un KO alla decima ripresa. Robinson difese il titolo quattro volte, sempre con successo: la prima di quelle, contro Jimmy Doyle, si concluse con la morte del suo avversario, troppo debole per misurarsi con lui. La cosa davvero incredibile di quello sfortunato incontro è che Robinson, la notte prima, aveva sognato appunto di uccidere Doyle, e per questo aveva comunicato che non intendeva affrontarlo. Intervenne allora un prete, che rassicurò il pugile e lo convinse a combattere. Fu così che il sogno si rivelò premonitore. Robinson fu poi accusato di avere evitato il confronto con i migliori pesi welter neri di quel tempo, ma a sproposito: Charley Burley e Holman Williams, i due pugili che molti si aspettavano incontrasse, erano ormai classificati nei pesi medi, non più nei welter, dove avevano militato prima che Robinson fosse campione. Lo sfidante migliore tra quelli che affrontarono Robinson fu il cubano Kid Gavilan, che uscì sconfitto ai punti al termine di un match esaltante. Nel 1950, Sugar Ray lasciò vacante la cintura per salire nei medi, dove non tardò a raggiungere la vetta della graduatoria. I tempi erano ormai maturi per un sesto match con LaMotta, che deteneva il titolo mondiale delle 160 libbre. Robinson l’aveva già battuto quattro volte su cinque da peso welter, ma sempre ai punti e senza mai riuscire a metterlo al tappeto.

robinson La motta

La sera del 14 febbraio 1951, davanti a 15.000 spettatori, Sugar Ray Robinson salì sul ring da favorito. I due pugili si conoscevano alla perfezione, e sapevano altrettanto bene cos’avrebbero dovuto fare per superarsi. LaMotta, pugile tarchiato e brevilineo, era un classico aggressore-demolitore: sempre all’attacco, accorciava la distanza per portare il gancio sinistro, spesso doppiato al corpo e alla testa, che era per distacco il suo colpo migliore. Non aveva la dinamite nei pugni, ma l’enorme numero dei colpi che scaricava sull’avversario sortiva spesso effetti devastanti e ultimativi. Era un pugile molto più fine di quanto comunemente si pensi, non certo il rude scazzottatore che molti dipingono: aveva una tecnica difensiva di alto livello, basata sulla particolare posizione di guardia e su riflessi da gatto. Teneva una postura laterale e raccolta sul fianco destro, con il braccio sinistro aderente al corpo e il guantone destro davanti al mento, non di lato. La mano destra in quella posizione serviva a deviare il jab dell’avversario oltre la spalla sinistra, mentre la mano sinistra, tenuta bassa e libera da funzioni difensive, scattava subito per incrociare con il gancio il diretto sinistro altrui. Le sue oscillazioni sul tronco erano a tratti spettacolari, efficacissime per evitare eventuali combinazioni a due mani e preparare l’incrocio, gesto che LaMotta eseguiva da maestro. In attacco, invece, il Toro del Bronx si affidava a soluzioni elementari: la torso-flessione a sinistra per schivare il jab e rientrare con il gancio sinistro, oppure il destro corto al corpo seguito dal gancio sinistro incrociato alla punta del mento. Ma la migliore qualità di LaMotta, quella che l’ha reso immortale, era la tenuta ai colpi: molti, ancora oggi, parlano di lui come del migliore incassatore di ogni tempo, e non lo fanno a sproposito. Lo stile di LaMotta era l’antitesi di quello di Robinson. Il fuoriclasse di Harlem è stato probabilmente il pugile più perfetto e completo che sia mai esistito. Boxava magistralmente a qualsiasi distanza e in qualunque situazione tattica, in attacco come in difesa, al centro del ring come lungo le corde. Portava tutti i colpi da manuale e li legava con abilità insuperata; aveva un gioco di gambe da ballerino – e non per modo di dire, perché praticò il ballo prima, durante e dopo la carriera pugilistica – e una coordinazione esemplare. Da ultimo, era dotato di una potenza detonante in entrambe le mani: spesso gli bastava un solo colpo per decidere un match. Inoltre, Robinson sapeva anche soffrire e incassare i colpi, anche se non con la stessa naturalezza di LaMotta. Il match tra i due, per quanto aspramente combattuto, ebbe in Robinson il dominatore indiscusso. Ray boxò LaMotta fuori dalla guardia, non danzando per il ring, ma tenendo la distanza con spostamenti oculati e rintuzzando gli assalti del rivale con colpi tempestivi e chirurgici. LaMotta provò come al solito ad accorciare la distanza, ma non riuscì mai nell’intento: Robinson, sapendo che Jake era pericoloso solo con il gancio sinistro, si muoveva sempre verso sinistra badando di tenere in posizione il guantone destro, e metteva il jab in uscita per costringere il rivale a fermarsi. LaMotta non riusciva a tagliare il ring per intercettare quegli spostamenti: la sua capacità di movimento sui piedi era limitata e gli impediva di tenersi sempre in asse con l’avversario. Un pugile impostato in guardia normale, come appunto LaMotta, può tagliare la strada a uno che si muova alla sua destra solo spostando il piede posteriore (il destro) prima di quello anteriore: ma questo gesto, solo apparentemente banale, appartiene al repertorio di non molti pugili, e LaMotta non figurava tra quelli. Quando Robinson, muovendosi verso sinistra, si trovava LaMotta sul destro, quello era il momento per affondare i colpi. E LaMotta, per quanto reattivo fosse nell’evitarli o quantomeno attutirli, non poteva sfuggire. Il match, passato alla storia come la riedizione pugilistica dello storico “Massacro del giorno di San Valentino”, cominciò a giustificare tale denominazione verso il decimo dei quindici round programmati, quando l’iniziativa si era ormai fatta unidirezionale. LaMotta sopportò indefesso una bastonatura terrificante e del tutto gratuita, perché l’epilogo era ormai annunciato. Robinson infieriva in cerca del KO, che sarebbe stato una liberazione anzitutto per il suo avversario. Ma Jake non era mai andato al tappeto, ed era orgoglioso e geloso di questo primato. Non solo, era orgoglioso anche di essere stato l’unico ad aver messo al tappeto l’altro, nel loro secondo match, ed era deciso a difendere fino allo stremo questa piccola soddisfazione personale. Così, nel tredicesimo round, quando Robinson lo chiuse alle corde e lo bombardò di colpi, LaMotta cercò affannosamente di legare, quindi sembrò sul punto di crollare al tappeto; ma una forza invisibile, che altro non era se non il suo indomito orgoglio, lo risospinse verso l’alto e poi sulle corde, dove Jake ciondolò aggrappato con le mani a quella più alta. A quel punto, nessun arbitro al mondo avrebbe omesso di intervenire, né lo fece il signor Frank Sikora, che pure avrebbe potuto sospendere il match molto prima. Leggenda vuole che LaMotta, dopo essere stato accompagnato all’angolo e adagiato sullo sgabello, si sia alzato per dirigersi all’angolo del rivale e dire a un attonito Robinson: “You never got me down, Ray”. “Non mi hai mai buttato giù”.

Dopo quella sconfitta, Jake LaMotta salì nei mediomassimi per fare pace con la bilancia. Ma aveva un fisico troppo minuto per essere competitivo nella nuova categoria. Conobbe finalmente il sapore del tappeto nel 1952, per mano dell’italoamericano Danny Nardico. Quell’atterramento sarebbe rimasto l’unico della sua carriera. Sugar Ray Robinson, invece, restò sulla cresta dell’onda ancora per molti anni. Perse inopinatamente il titolo dei medi alla prima difesa, cedendolo all’inglese Randy Turpin in quel di Londra. Il match si disputò nel mezzo di una tournée europea che vide Robinson concedersi qualche distrazione di troppo, per poi pagarne il conto davanti a Turpin. L’immediata rivincita, disputata a New York, ebbe tutt’altro esito: Turpin subì un terrificante KO che l’arbitro Ruby Goldstein (lo stesso che avrebbe poi diretto il tragico terzo match tra Emile Griffith e Benny Paret), colpevolmente, non seppe scongiurare. Dopo due difese vittoriose del titolo, una delle quali con Rocky Graziano (perentorio KO al terzo round), Robinson salì nei mediomassimi per sfidarne il campione, l’italoamericano Joey Maxim (alias Giuseppe Antonio Berardinelli). In una torrida giornata di giugno, sotto un sole infernale, Robinson stava dominando largamente il confronto quando, nell’intervallo dopo il tredicesimo round, collassò sullo sgabello e non poté proseguire. L’afa era tale che persino l’arbitro Goldstein (ancora lui) era svenuto ed era stato sostituito. Dopo quel match, Robinson annunciò il ritiro per revocarlo due anni più tardi: le ristrettezze economiche, dovute a una vita sfarzosa e a investimenti azzardati, lo riportarono sul ring. Dove Ray scoprì e dimostrò di essere ancora il migliore: tra vittorie e sconfitte, sempre con rivali di alto spessore, Robinson entrò nella storia come l’unico pugile ad aver vinto il titolo mondiale dei medi per cinque volte. Quando, nel 1960, fu detronizzato e poi respinto in rivincita da Paul Pender, pugile lontano da livelli di eccellenza, il suo declino fu una realtà conclamata. Ma sarebbero serviti altri cinque anni di sconfitte per convincere il più grande pugile di sempre ad appendere i guantoni al chiodo .

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